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podcast

Le Figlie della Repubblica - Stagione 1

#Episodio 2

Serena Andreotti racconta il padre Giulio

SINOSSI

Una vita dedicata alla politica, che attraversa per intero tutta la vicenda della Prima Repubblica. Andreotti, allievo di De Gasperi, è stato uno dei protagonisti indiscussi della Democrazia cristiana e dei tornanti più delicati della storia d’Italia. Questo podcast ci racconta, attraverso il ricordo della figlia Serena, alcuni momenti della storia politica del padre, dagli anni della “solidarietà nazionale” e dell’assassinio di Moro alla tempestosa fine della Prima Repubblica.


BIOGRAFIA

Andreotti, Giulio (Roma, 14 gennaio 1919 – Roma, 6 maggio 2013).

Personalità politica, più volte ministro e presidente del Consiglio della Repubblica. Nato da Filippo Alfonso Andreotti, maestro elementare, e Rosa Falasca, fu tra i fondatori della Democrazia Cristiana, affiancando alla capacità di statista a doti di scrittore e di giornalista.

Successivamente agli studi classici, si mostrò attivo nell’associazionismo cattolico aderendo nel 1938 alla Fuci. Negli ambienti universitari cattolici, Andreotti strinse rapporti di stima e collaborazione con Giovanni Battista Montini, che sarebbe divenuto papa con il nome di Paolo VI, Aldo Moro, presidente della Fuci, e molti altri esponenti cattolici della futura classe dirigente politica italiana e democristiana.

L’incontro fondamentale per il suo successivo percorso politico è tuttavia quello con De Gasperi, ancora addetto alla Biblioteca Vaticana, durante gli studi in Giurisprudenza a La Sapienza di Roma. Su sollecitazione dello stesso De Gasperi, di cui divenne stretto e fidato collaboratore, fu designato alla Consulta nazionale nel 1945 e, l’anno successivo, candidato all’Assemblea costituente. Nell’aprile 1948, fu eletto alla Camera dei deputati, mantenendo la carica di sottosegretario alla Presidenza fino al gennaio 1954, anno in cui fu per la prima volta ministro. In tale periodo ricoprì differenti deleghe quali sport, spettacolo e cinema, sostenendo in quest’ambito il c.d. “neorealismo cattolico”.

Nel suo percorso politico fu sette volte presidente del Consiglio e ventotto volte ministro della Repubblica. Nel corso degli anni Settanta, la sua intensa attività di governo fu segnata da momenti di grande rilevanza per la storia del paese, come il governo Andreotti-Malagodi del 1972-73, e soprattutto gli esecutivi di “solidarietà nazionale”, basati sulla collaborazione con il Pci. In questi anni, Andreotti dovette fronteggiare la crisi economica e la stagione stragista e terroristica, particolarmente segnata dal sequestro Moro, cui Andreotti rispose con la linea della fermezza.

Nel corso degli anni Ottanta, dopo un’iniziale fase di marginalizzazione negli equilibri politici, fu ministro degli Esteri negli esecutivi guidati da Craxi, prima di ritornare alla Presidenza del Consiglio con i suoi due ultimi governi, tra il 1989 e il 1992.

Nominato Senatore a vita, nel corso del 1992 fu tra i principali candidati alla Presidenza della Repubblica. Nel 1993 fu coinvolto nelle inchieste della magistratura circa i suoi presunti rapporti con la mafia siciliana; rapporti che sarebbero stati mediati da alcuni esponenti della sua corrente. Si apriva così un lungo processo, sia giudiziario che mediatico, cui Andreotti si sottopose con fermezza e senso delle istituzioni. Un processo lungo, duro e complesso, destinato a chiudersi dieci anni più tardi con una larga assoluzione e la prescrizione dei fatti antecedenti al 1980.


TRASCRIZIONE PODCAST

Sì, lui è cresciuto tra donne perché oltre a mia nonna, che è stata una persona di qualità superiore perché è rimasta vedova giovanissima, 31 anni con tre figli, una pensione molto modesta perché mio nonno era stato maestro elementare e poi aveva la pensione di guerra, però veramente modesta, ha tirato su questi tre figli però con l’aiuto di una zia. Nella sua casa sono andati a vivere a via dei Prefetti, la mitica per noi zia Mariannina, che veniva appunto citata come mito, era del ‘54, 1854 ed era una papalina sfegatata con proprio un risentimento nei confronti dei piemontesi. Per cui in un’esaltazione del papato, della chiesa, via dei prefetti molto vicina al Parlamento e li guardavano non tanto bene i parlamentari anche perché il parlamentare usufruiva del riscaldamento, cosa che invece nelle case della piccola borghesia mancava e faceva freddo.

Le figlie della Repubblica è un podcast della fondazione De Gasperi realizzato in collaborazione con il Corriere della Sera e con il sostegno della fondazione Cariplo, una serie di ritratti molto speciali delle grandi figure della nostra Repubblica raccontate da un punto di vista più vicino, più familiare e più intimo, quello delle loro figlie. Sono Alessandro Banfi e in questa puntata raccontiamo Giulio Andreotti con le parole e i ricordi di sua figlia serena, classe 1954, archeologa e ora presidente dell’archivio Giulio Andreotti.

È senza dubbio tra i personaggi che hanno lasciato un grande segno nella nostra storia, leader della Democrazia Cristiana anche se non ne divenne mai segretario, sette volte Presidente del Consiglio e 28 volte ministro, nominato senatore a vita e sul punto, nel ‘92, di essere eletto alla presidenza della Repubblica. Una grande carriera politica eppure nasce a Roma in una famiglia molto modesta originaria della Ciociaria, più di cento anni fa, il 14 gennaio 1919 e suo padre Filippo, maestro elementare, muore quando lui ha tre anni a causa della febbre spagnola. Viene così cresciuto dalla madre Rosa Falasca e dalla zia Mariannina, donne forti che sono fondamentali nella sua formazione. Oltre a loro per la personalità di Giulio fin da giovane, molto praticante andava messa tutte le mattine, è fondamentale l’associazionismo Cattolico e il rapporto con alcuni religiosi che ricorderà sempre come decisivi. Per lui la fede e la famiglia sono un vero e proprio Habitat che lo accompagna sempre sia nei momenti di massimo successo sia nei momenti più duri e difficili.

Lui ha avuto come forza incredibile la fede e la famiglia, l’unione della famiglia che non ha mai veramente avuto crisi interne, è stato per lui una forza incredibile chiaramente col lavoro che lui faceva e con l’assenza da casa per la maggior parte dei giorni quantomeno delle ore noi eravamo sotto la guida di mamma. Mamma anche era molto religiosa, stavamo in contatto con delle suore benedettine e Priscilla che era stato fondato da Monsignor Giulio Belvederi che era lo zio di mamma quindi siamo sempre cresciuti a Priscilla, fatto catechismo, comunione, cresime diciamo questo è stato il nostro Habitat dal punto di vista religioso. Siamo tutti religiosi, laici perché nessuno di noi ha mai pensato di prendere i voti, però religiosi. 

La politica non è la prima vocazione di Andreotti e come sempre succede nelle nostre vite la vera vocazione appare quasi per caso attraverso eventi e incontri che cambiano i nostri programmi e creano un destino. Alla fine degli anni trenta si iscrive a Giurisprudenza all’Università Sapienza di Roma e prende parte alla Federazione Universitaria Cattolica Italiana, la Fuci, incontra così personalità per lui fondamentali come Aldo Moro e soprattutto Alcide De Gasperi, allora impiegato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana.

Quando è morta zia Nenna e aveva 17 anni l’anno dopo ha fatto la maturità, avrebbe voluto iscriversi a medicina però il corso di studi era troppo lungo, troppo costoso, lui voleva cominciare a guadagnare per aiutare appunto la madre e ha fatto legge e lì poi è cominciata anche la frequentazione della Fuci dell’università a contatto anche con Moro che ai tempi era presidente. Moro gli affidò la direzione del giornale della Fuci e quando Moro è andato, partito per il servizio militare, gli è subentrato, quindi ha conosciuto esponenti di livello del clero e aveva anche contatti proprio con il Papa, lui è andato più volte in udienza dal papa e poi con De Gasperi, l’incontro con De Gasperi fu casuale. Il primo perché volendosi laureare in fretta aveva scelto una tesi sulla marina dello Stato Pontificio che avrebbe potuto svolgere in maniera rapida e andò in biblioteca vaticana. De Gasperi, che era capo della biblioteca Vaticana, dice “ma non hai niente di meglio di cui occuparsi”? Cose che mio padre all’inizio insomma non prese bene, questo voglio fare, poi lo ritrovò e nacque questo rapporto eccezionale, da parte di mio padre proprio una venerazione per l’intelligenza, la dirittura morale, tutto, proprio aveva una stima al 1000% e poi De Gasperi lo introdusse molto rapidamente nella politica attiva.

È infatti per questo che nel biennio della Costituente ‘46-’48 il 20 settembre Andreotti diventa uno degli uomini più in vista della DC, alle elezioni politiche del ‘48 è il secondo candidato del collegio laziale dopo De Gasperi e ottiene un grande successo personale. È chiamato così alla segreteria della Presidenza del Consiglio nel periodo cosiddetto del centrismo ‘48-’53 e ha una serie di deleghe che spaventerebbero chiunque: rapporti con i ministri e i gruppi parlamentari, questioni delicate come le zone di confine con la vicenda ancora aperta di Trieste e dell’Alto Adige. Si occupa anche di questioni più popolari ma fondamentali per la rinascita del paese: lo sport, lo spettacolo e il cinema. Uno dei suoi più grandi successi politici e sociali è infatti la rinascita del cinema italiano grazie a una legge che aiuta enormemente il sistema, creando una delle sue stagioni più felici. Sentiamolo da un servizio del notiziario Luce in una dichiarazione all’ottava mostra internazionale del cinema di Venezia nel 1947: «Ecco le dichiarazioni del sottosegretario alla presidenza mentre sta per inaugurarsi l’ottava Mostra del Cinema. “Ci occorre una prova della importanza obbiettiva dell’Industria cinematografica e della considerazione in cui si è tenuta dagli organi politici dirigenti del paese basterebbe pensare che al suo sviluppo sono state dedicate nei mesi scorsi numerose sedute da parte dell’assemblea costituente per Cinematografia, anche se fatto a scapito della Costituzione poiché il governo ha il dovere di affiancare e facilitare questa attività e pur sotto un profilo soltanto economico costituisce una voce di enorme importanza nel nostro Commercio con l’estero”.»

Cinecittà era occupata dagli sfollati, la stragrande maggioranza dei film che venivano proiettati in Italia erano americani e quindi l’idea di base era ricostituire un’industria cinematografica che era importante da tutti i punti di vista, allora questo portò alla stesura di una legge che fra l’altro obbligava le imprese cinematografiche americane per lo più straniere a reinvestire in Italia una parte del loro guadagno. Obbligava anche le sale cinematografiche a trasmettere un tot giorni all’anno film italiani. Questi sono i due motori che poi consentirono la nascita della grande stagione del cinema italiano. Strinse dei legami anche importanti e durevoli, che ne so con persone tipo Fellini o Sordi perché poi anche con De Sica con cui c’era stata appunto questa questione dei “panni sporchi si lavano in casa”. Poi in realtà si pacificarono e si misero in buoni rapporti amichevoli.

Facciamo adesso un salto in avanti di circa vent’anni, un salto nel buio negli “anni di piombo” un momento terribile degli anni ‘70 dove la vita politica si sporca di sangue e il confronto diventa portatore di violenza e di morte in un fenomeno che coinvolge organizzazioni di destra e di sinistra. La strategia della tensione di stampo neofascista diffonde con le bombe gli attentati, la paura, per giustificare un intervento autoritario. Sul fronte opposto negli ambienti di sinistra esplode la svolta armata contro lo Stato e punta anch’essa alla conquista del potere. È come se tutti i colori della vita politica italiana della vita in generale in quegli anni si riducessero solo a due sfumature, il rosso e il nero che erano diventati i colori della paura. Tutti in quegli anni respiravano la paura comprese le famiglie dei politici più in vista.

Noi abbiamo vissuto sotto questa cappa di paura. Vivevamo del tutto normalmente. L’unica cosa che facevo quando stava all’università mi ero un po’ cambiata il nome per chiamarmi Andretti invece che Andreotti per non dare troppo nell’occhio. Ai tempi quando succedeva qualche cosa e purtroppo non dico quotidianamente ma quasi, si sentiva l’elicottero della polizia e io la prima cosa facevo correvo a un telefono, perché i cellulari non c’erano, e sentivo cosa fosse successo a casa. Tutti bene babbo bene? Io ancora adesso, e sono passati purtroppo decenni, se sento un elicottero ho distintamente paura. 

Uno dei momenti più spaventosi della nostra vita politica è certamente il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, allora presidente della DC che Andreotti conosce bene sin dagli anni dell’università. Hanno un rapporto cordiale di stima reciproca anche se su molte questioni politiche i due non sono d’accordo. Moro è assieme a Berlinguer il regista dei governi di solidarietà Nazionale che prevedono il governo DC con l’appoggio esterno del PC e nonostante alcune divergenze Moro indica proprio Andreotti come la figura più giusta per guidare questo passaggio. Sono amici insomma e anche i compagni di partito che non temono di confrontarsi sul piano politico.

Mio padre aveva grande ammirazione sicuramente per Moro per la sua intelligenza per la sua preparazione, non ne condivideva alcune idee politiche, fra cui l’apertura del centro-sinistra. Quando l’esperienza del centro-sinistra è finita e Moro fu diciamo così nel partito all’opposizione, però è chiaro che i rapporti rimanevano dal punto di vista personale sempre buoni. Poi più o meno i due governi iniziali ‘72 ‘73 Moro era contrario e contribuì a farlo cadere però rientrava nel gioco chiamiamolo del partito delle idee. Insomma rimanevano sempre amici e compagni di partito.

Il 16 marzo 1978 è uno di quei giorni nei quali tutti ricordano cosa stavano facendo nel momento in cui arriva la notizia e la notizia dell’incredibile e la notizia ha dell’incredibile: le Brigate Rosse hanno rapito Moro massacrando i cinque uomini della scorta. Serena quel giorno è a casa, la madre soffre di una grave depressione e stanno aspettando uno specialista. Arriva invece la telefonata di suo padre e comincia l’incubo della prigionia di Moro.

Il 16 marzo fu come… non so io l’ho visto piangere soltanto quando è morta nonna e quando è morto Moro. Per noi fu un periodo pesantissimo, mamma era malata, allettata, praticamente gli nascondevamo quello che stava succedendo. Il 16 marzo poi doveva venire un neuropsichiatra dei Paesi Baschi perché attraverso amici doveva essere organizzato questo consulto, quando arrivò la notizia mio fratello è stato male, è svenuto, quindi poi l’hanno messo su telefono che non sarebbe tornato a casa per tutta la giornata naturalmente e poi quando arrivò babbo la sera a quel punto ci disse “Se dovesse succedere a me non dovete fare niente” da quel momento fu 55 giorni di incubo vero e tornava a casa, non se ne fa niente, forse c’è un indizio, forse non c’è un indizio, il lago della Duchessa, e via Gradoli, cose più o meno misteriose e delle visite abbastanza frequenti del monsignor Macchi che veniva a tenere rapporti con il Papa.

L’opinione pubblica si spacca tra i favorevoli e contrari e alla trattativa con le BR. Andreotti è contrario perché significherebbe riconoscere i terroristi come interlocutori. Lavora però a contatti non ufficiali. 55 giorni dopo il 9 maggio arriva l’altra notizia più tremenda: le BR hanno ammazzato Moro abbandonando il corpo in una Renault 4 in via Caetani a Roma. La notizia non porta solo il dolore infinito per la morte di un amico e compagno ma anche l’amarezza profonda per le accuse di non avere fatto abbastanza per salvarlo.

Non era per la trattativa con le Brigate Rosse perché avrebbe comportato un riconoscimento in qualche maniera delle Brigate Rosse come entità politica e non lo era soprattutto nella consapevolezza dei morti che avevano fatto, cioè le cinque persone non è una cosa efferata e alle spalle tanti altri quello che fu trattato delle strade traverse dei contatti con vari istituzioni, Amnesty International le Croce Rossa e la possibilità che questi potessero andare all’estero in qualche maniera. Però lo scambio dei prigionieri no, questo mai, c’aveva evidentemente chiara la strada da seguire, che fosse una strada di dolore di devastazione era altrettanto chiaro e così andò. Con mio padre in lacrime e le accuse, l’amarezza delle accuse, di non aver fatto abbastanza quando lui è morto. Noi abbiamo aperto delle lettere di cui sapevamo l’esistenza, però l’avevamo rispettate, che lui aveva scritto perché la leggessimo post mortem. Sono cinque e le aveva scritte in momenti della sua vita in cui ha sentito di più la possibilità che fosse vicina la sua la sua morte e una di queste era appunto durante la prigionia di Moro. Quello che lui sottolineava sempre: “io vado incontro alla morte consapevole di aver fatto un sacco di errori però ci sono delle cose che giuro davanti a Dio, sono assolutamente innocente, una era questa, la mafia e l’accusa che più mi fa male e quella di non aver fatto il possibile, anzi di aver ostacolato la liberazione di Moro“.

Con gli anni ‘80 e la sconfitta del terrorismo finisce la collaborazione con i comunisti. Dopo anni da parlamentare Andreotti diventa uno dei protagonisti del “pentapartito”, un’alleanza tra le forze moderate costituita da democristiani, socialisti, democratici liberali, repubblicani, che intende dare stabilità e serenità al paese che esce dagli anni di piombo. È protagonista della politica il leader socialista Bettino Craxi che rende decisivo il suo partito nell’alleanza e lo fa anzi diventare molto competitivo nei confronti della Democrazia Cristiana. I rapporti tra i due così cominciano in modo piuttosto burrascoso.

Inizialmente i rapporti con Craxi erano pessimi, delle definizioni da parte di Craxi erano veramente pesanti poi quando hanno cominciato a collaborare, lui presidente del Consiglio e babbo ministro degli Esteri, le cose sono assolutamente cambiate e svilupparono una stima reciproca notevole e una collaborazione dovuta anche al fatto che erano due persone distinte e diversissime. Craxi era un intuitivo che sapeva cogliere il punto centrale delle questioni con sagacia, mio padre era un metodico che studiava sempre, un secchione. E l’intuito faceva sì che poi ottenessero risultati molto importanti, fra l’altro portando l’Italia ad avere un bel volto nello scenario internazionale e quando Craxi poi è andato ad Hammamet, babbo ha cercato a più riprese di facilitare il suo ritorno. Ci sono lettere che si scambiano, a questo punto di stima e di simpatia reciproca.

Dopo molti decenni al centro della vita politica italiana gli anni ‘90 sono per Andreotti l’inizio del periodo più duro della sua vita. Nel 1993 la magistratura lo accusa di presunti rapporti con la mafia siciliana e di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Si apre così un lungo processo, sia giudiziario che mediatico, al quale Andreotti si sottopone con fermezza e senso delle istituzioni. Un processo che si chiuderà dieci anni più tardi con una piena assoluzione e la prescrizione dei fatti antecedenti al 1980. 

Non è che ci possiamo nascondere che il processo è stato un elemento non importante, di più, della nostra esistenza, anche familiare, e chiaramente fu un colpo per tutti. Per mio padre fu un colpo inizialmente devastante, come se gli avessero dato un bastone sulla testa. Rimase per fortuna, non a lungo, ma come inebetito e una cosa che più ci faceva male era vederlo estraneo a tutto quello che stava succedendo. Fuorchè quella sua vicenda lui era curioso, si informava di tutto, era come chiuso in questo suo sbigottimento. Poi per fortuna è stato un periodo relativamente breve, l’avviso di garanzia fu nel marzo del ‘93, alla fine dell’anno, all’inizio del ‘94 ebbe queste due operazioni sicuramente parzialmente legate, accade che uno somatizza, gli furono rimosse due forme tumorali per fortuna benigne. Fu essenziale la fede, che naturalmente lo condusse ad accettare questa sua situazione così diametralmente opposta a quella che aveva vissuto fino a poco prima, oneri ma soprattutto onori, accettarla come una specie di Purgatorio in terra. Lui diceva appunto questa frase della mitica zia Mariannina “in paradiso non si va in carrozza” e lì “mi hanno fatto scendere”. Altra forza dipende da figli, nipoti proprio abbiamo fatto “la testuggine dei romani” quanto eravamo compatti nelle cose e quindi abbiamo superato quel momento poi lui si è messo a fare l’imputato modello così con la stessa aria da secchione con cui faceva il senatore faceva anche l’imputato, si studiavano tutte le carte, si trovavano tutti i riscontri considerato che tutto quello che veniva detto da questi pentiti, campato in aria, quindi non c’erano date, non c’erano c’era possibilità di rispondere alle nebbie, però ogni volta che tiravano fuori una data o un nome, un qualcosa, c’era sempre grazie a questa collezioni di diari e le carte dell’archivio una smentita. “Io in quel giorno stavo facendo un’altra cosa” e quindi andò avanti 11 anni poi vennero i primi verdetti, grandi festeggiamenti, grande cose in famiglia poi arrivò il secondo verdetto, molti meno festeggiamenti e quello di Perugia devastante. E lì pure una cosa cioè 17 novembre 2002 condannato a 24 anni come mandante dell’omicidio perché non poteva non sapere. Cioè una sentenza che fra l’altro in quella di Cassazione poi è severamente condannata come sbagliata ma insomma arrivò la telefonata di Giulia Bongiorno che ancora mi ricordo, poveraccia piangeva pure lei come una fontana, “stategli vicino stategli vicino” e tutti piangevamo e lui no, serenamente, dice “ancora credo nella giustizia” nel suo comunicato e noi “reagisci!”, era arrabbiato chiaramente ma controllatissimo, questo sì, era controllatissimo. 

C’è un carattere però riconosciuto da tutti, che è tipico della sua personalità, il talento da popolano romano per la battuta pronta, per la reazione acuta un atteggiamento che ha sempre mantenuto nei momenti più alti e nelle prove più difficili una sorta di buonumore che resisteva e che in fondo indica come avesse la capacità di mettere ogni cosa nella giusta prospettiva.

Andava in televisione così come scriveva delle cose più diverse, era un modo di comunicare anche idee importanti con un approccio di simpatia che chiaramente qualsiasi discorso politico non avrebbe mai potuto raccogliere lo diceva sempre: “io ho più commenti, reazioni a una qualsiasi battuta anche scema che ho detto in televisione piuttosto di qualsiasi dissertazione o discorso congressuale possa aver mai fatto”. Questa sua capacità di sintetizzare il pensiero in battute che gli venivano del tutto normali, a casa anche era abbastanza scoppiettante, quando eravamo in vena questi scambi di comicità e di battute faceva parte del suo modo di essere. Lui aveva un senso dell’umorismo veramente spiccato, sapeva veramente cogliere lati comici in qualsiasi situazione, qualsiasi persona, io devo dire che a casa a parte appunto questi momenti tragici, abbiamo ricordato un sacco di momenti tragici, ce ne sono stati anche belli, e tanti, noi a casa ci divertivamo veramente tanto. I nostri pranzi erano scoppiettanti, non erano mai banali. 

Chi era Andreotti? Un grande politico o uno stratega raffinato, un lottatore, un predestinato, certamente un numero uno con grandi talenti che non gli hanno risparmiato l’altalena della vita attraversando così successi e fallimenti, fatiche e dolori, affetti e delusioni, esperienze che in fondo non sono poi così lontane da quelle che facciamo tutti noi. 

Le figlie della Repubblica è una delle iniziative che trovate su www.fondazionedegasperi.org, grazie al contributo di Fondazione Cariplo e al sostegno dell’Istituto Gentili, nata da un’idea di Martina Bacigalupi e realizzata da WIP Italia. È stato raccontato da me, Alessandro Banfi, ed è stato scritto e diretto da Emmanuel Exitu. Con la supervisione storica di Antonio Bonatesta e la collaborazione degli amici giovani della Fondazione De Gasperi nelle persone di Martina Bartocci, Iacopo Bulgarini, Miriana Fazzi, Federico Andrea Perinetti, Gaia Proietti, Luca Rosati, Sound Design di Valeria Cocuzza, registrazione in studio di Marco Gandolfo, per una produzione WIP Italia.


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