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podcast

Le Figlie della Repubblica - Stagione 1

#Episodio 4

Chiara Ingrao racconta il padre Pietro

SINOSSI

Dalla Resistenza alla militanza politica, la vicenda di Ingrao si intreccia con quella della più rilevante organizzazione politica di massa dei lavoratori nel secondo Novecento, il Partito comunista italiano. Questo podcast ci racconta, attraverso la voce della figlia Chiara, le storia del padre, tra la passione per la politica e l’amore nella politica, che lo ha legato alla moglie Laura. Un percorso politico e giornalistico, quello di Ingrao, passato dalle battaglie per la giustizia sociale e dalla responsabilità per le sorti del paese.


BIOGRAFIA

Ingrao, Pietro (Lenola 30 marzo 1915 – Roma, 27 settembre 2015) – uomo politico italiano.

Ingrao nacque a Lenola, in provincia di Latina, il 30 marzo 1915 da Francesco Renato, impiegato comunale vicino ai socialisti riformisti, e da Celestina Notarianni.

Avvicinatosi nel corso degli studi in Giurisprudenza e Lettere all’impegno antifascista, Ingrao giunse alla militanza comunista nel 1939-40. Entrato in clandestinità dopo l’8 settembre 1943, inaugurò il suo impegnò ne “l’Unità” e conobbe la sorella di Lucio Lombardo Radice, Laura, insegnante e antifascista, che sposò nel giugno 1944. Dal matrimonio nacquero cinque figli: Celeste, Bruna, Chiara, Renata, Guido.

Alla fine della guerra, Ingrao assunse la direzione de “l’Unità”, che tenne dal 1947 al 1957. In occasione delle elezioni dell’aprile 1948, per la I Legislatura, fu eletto deputato; sarà confermato alla Camera fino alla X legislatura (1992). Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, si schierò con la sinistra interna, di cui divenne uno dei massimi esponenti, criticando prima il moderatismo togliattiano e poi la linea maggioritaria del partito, attestata su una posizione di opposizione costruttiva al centro-sinistra.

All’inizio degli anni Settanta, assunse la guida del Centro di studi e iniziative per la riforma dello Stato – Crs (1972-76), in anni turbolenti segnati da mobilitazioni sociali, rivendicazioni sindacali, squilibri del sistema monetario internazionale, crisi petrolifera. Con l’avvio della “solidarietà nazionale”, nel luglio 1976 Ingrao fu chiamato alla presidenza della Camera dei deputati, che mantenne fino al 1979. Con il ritorno del Pci all’opposizione, Ingrao aderì senza riserve alla linea berlingueriana dell’alternativa di sinistra e della questione morale, accompagnando il Pci verso una sempre più marcata presa di distanze dal comunismo sovietico.

Negli anni successivi alla morte di Berlinguer (giugno 1984), Ingrao intese favorire i propositi di rinnovamento promossi dalla segreteria di Achille Occhetto, abbandonando nel 1989 la direzione del Pci. Dissentì tuttavia, all’indomani della caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989), circa l’avvio di una fase costituente volta alla creazione di nuova formazione politica sulle ceneri del Pci. Dopo una prima momentanea adesione Partito democratico della sinistra (Pds), nel 1992, Ingrao rinunciò ai propositi di un’ennesima candidatura e uscì partito.


TRASCRIZIONE PODCAST

Anche lei era coinvolta in questo gruppo di antifascisti. Siccome loro erano già molto controllati dalla polizia, il gruppo decise che Laura e Pietro, che erano tra l’altro due bellissimi giovani e quindi era anche credibile, giustificabile, avrebbero dovuto fingere di essere fidanzati in modo tale che i controlli del regime sugli incontri avrebbe detto “ok sono incontri fra due fidanzati”. Questo fingere di essere fidanzati piano piano ha portato alla maturazione di qualcosa, non immediatamente perché anzi loro raccontavano comunque che la prima volta che lui volle un po’ “approfittare” della situazione, un po’ da ragazzotto di campagna, allunga le mani e lei gli diede un bello schiaffone. Poi però evidentemente quello di mio padre non era solo un desiderio di allungare le mani e la reazione di mia madre era solo un modo per dire “mi devi rispettare come persona” ma non era disinteressata a questo giovinotto, per cui cominciò a maturare un sentimento che si esprime nel momento in cui Pietro sa che deve lasciare Roma e deve entrare in clandestinità, va a casa Lombardo Radice, fa vari i giri e mamma lo accompagna al portone, c’era questa casa era dentro a un giardino a questo portone. Nel momento in cui sanno che si stanno salutando lui entra in clandestinità che succederà? Potrebbe essere arrestato, potrebbero non vedersi più nel momento in cui sanno che si potrebbero perdere è il momento in cui si danno il primo bacio, si dicono che non vogliono perdersi e infatti non si sono persi per tutta la vita. 

Iniziamo con una storia romantica perché la vita che stiamo per raccontare ha molto di romantico anche dal punto di vista politico. Sono Alessandro Banfi e in questa puntata raccontiamo Pietro Ingrao attraverso i ricordi di sua figlia Chiara classe 1949 sindacalista parlamentare e scrittrice. Le figlie della Repubblica è un podcast della Fondazione De Gasperi realizzato in collaborazione con il “Corriere della Sera” e con il sostegno della fondazione Cariplo, una serie di ritratti molto speciali delle grandi figure della nostra Repubblica raccontate da un punto di vista più vicino, più familiare e più intimo, quello delle loro figlie. Pietro Ingrao nasce nel 1915 a Lenola in provincia di Latina da Renato, impiegato comunale e da Celestina Notarianni. Membro della Resistenza, giornalista leader della sinistra interna del Partito Comunista Italiano deputato dal ‘48 al ‘92 e Presidente della Camera dei Deputati dal ‘76 al ‘79. 

Mio padre è nato e cresciuto in un piccolo paese ai confini della Ciociaria che si chiama Lenola da una famiglia benestante che aveva un po’ di terra. Non ricchissima però certamente che apparteneva ai privilegiati del paese e lui ha sempre raccontato che la sua prima vaga presa di coscienza è stato nel rendersi conto delle differenze profonde che c’erano fra la sua vita, protetta, tranquilla, nutrita e quella dei contadini, dei braccianti, dei mezzadri della zona. Si è appassionato sin da giovane di letteratura, scriveva poesie e quindi poi ha partecipato alle forme di impegno di partecipazione culturale che il fascismo offriva. I cosiddetti littoriali della cultura che erano una specie di premio in cui partecipavano i giovani che avevano fatto delle produzioni letterarie. Lui vinse pure una volta con una poesia che lui ha sempre detto brutta, in effetti era brutta, poi lo portarono ad incontrare altri giovani i quali anche loro stavano maturando una coscienza critica, la percezione che qualcosa non andava. Questa percezione si è acuita sempre di più e ha visto una svolta nel momento della guerra di Spagna. Lui usava sempre questa espressione che ha ripetuto molte volte “sono cambiati i libri sul mio tavolo”, nel momento in cui c’è stata l’aggressione nazifascista alla Repubblica, alla democrazia si è reso conto come tanti che la sua vita doveva cambiare che bisognava reagire. 

Abbiamo quindi un giovane che frequentando l’università entra in contatto con altri giovani sviluppando una coscienza antifascista a partire dalla guerra di Spagna, una coscienza che passa all’azione quando vengono arrestati tra il ‘39 e il ‘40 i leader del gruppo Lombardo Radice, Natoli e Pietro Amendola; in quel momento disse “succedono quelle cose che si leggono nei romanzi. Quelli sono andati dentro adesso tocca a noi”. Entra così nel gruppo e si innamora della sorella di Lombardo Radice, Laura insegnante e antifascista che però deve lasciare a Roma quando è costretto alla clandestinità. Ricordate? Si erano lasciati sul portone scambiandosi il primo e forse ultimo bacio prima della partenza per Milano senza sapere se si sarebbero mai rivisti e anche su questo incontro c’è una storia romantica. 

Mentre lui è clandestino a Milano a un certo punto lei decide di andare a fargli visita. La accompagna il fratello di mio padre Francesco Ingrao, anche lui poi sarà partigiano nella Resistenza in montagna. Arrivano a Milano e loro avevano, per trovarlo, un indirizzo e una parola d’ordine, non sapevano che quell’indirizzo ormai era bruciato, che se fossero andati a quell’indirizzo sarebbero stati presi anche loro tanto più se dicevano la parola d’ordine. Stanno per andare e lei dice “aspetta un momento mi voglio dare una sistemata” va nel bagno della stazione, si pettina, si mette il rossetto, mamma sempre usato il rossetto fino alla morte, quei pochi minuti hanno fatto la differenza perché usciti dalla stazione vede passare mio padre in bicicletta, per il desiderio di lei di apparire carina al suo amore si è salvata, e si è salvato anche questo amore. 

Pietro e Laura finalmente si sposano, “ci sentivamo ferocemente vivi” scrive lei in una lettera alle figlie, si sposano in Campidoglio subito dopo la liberazione di Roma il 24 giugno del ’44 e dal matrimonio nasceranno cinque figli: Celeste, Bruna, Chiara, Renata e Guido. Ingrao è direttore dell’Unità dal ’47 al ‘57. Eletto deputato alle elezioni del ‘48. Negli anni più duri della guerra fredda si schiera con la sinistra interna facendo scelte che poi ha il coraggio di mettere in discussione e di riconoscere come sbagliate.

Certamente posso dire di aver vissuto un po’ direttamente un po’ indirettamente la tensione che mio padre ha avuto a non dare mai nulla per scontato a rimettere sempre in discussione e quindi a continuare a riflettere su quello che faceva, compreso riflettere sui suoi errori perché per esempio nel ‘56, con grande dolore quando ci fu la rivolta in Ungheria contro l’oppressione Sovietica, lui pensò che era importante schierarsi dalla parte del comunismo, che il comunismo era minacciato, e quindi si schierò come la maggioranza del Partito Comunista contro la ribellione a favore degli invasori. Però molti anni dopo è uno dei pochi politici che ha avuto il coraggio di dire “ho sbagliato in quel momento, io ho sbagliato, non dovevo sostenere quella repressione sanguinosa di quella che alla fine era una rivolta Democratica”. Questo non diminuisce la gravità dell’errore, è il fatto che per tanti anni lui come tanti altri non hanno aperto gli occhi fino in fondo sui regimi dell’est. Certamente Quando è arrivato il ‘68 e l’invasione Sovietica della Cecoslovacchia a quel punto non solo mio padre ma la maggioranza del Partito Comunista invece si schierò contro quell’invasione Sovietica della Cecoslovacchia provoca Ingrao che vede sempre più necessario un legame tra il socialismo e la democrazia sul fronte interno.

Siamo ancora negli anni dei governi di centro-sinistra basati sull’asse di PC-PSI che aprono nel Partito Comunista un contrasto tra due linee, quella di Amendola, favorevole al governo e quella di Ingrao che vuole un’opposizione più radicale. Una costante di Ingrao e il suo essere critico, rivendica il diritto al dissenso interno, un grave peccato per le liturgie del Partito Comunista.

Per lui pensare con la sua testa dentro al suo partito ha comportato anche dei prezzi, nel 1966 a quello che era l’undicesimo congresso del Partito Comunista vigeva il rituale e la regola che bisognava dichiararsi d’accordo col gruppo dirigente, anzi in genere si iniziavano gli interventi dicendo sono d’accordo con la relazione del compagno e lui iniziò dicendo “non posso dire che mi abbiate convinto” e quindi fu una rottura fortissima, esprimendo le sue critiche e rivendicando il fatto che è giusto poter dissentire; alla fine di questo intervento tutta la platea del congresso si alzò in piedi ad applaudire e il gruppo dirigente rimase così, a braccia conserte, immobile, tanti che erano d’accordo con lui furono non so erano a Roma, furono mandati in altre parti d’Italia, tanti furono isolati, diciamo chi rivendicava il diritto dissenso, il bisogno di cambiare, il bisogno di staccarsi dall’Unione Sovietica molto più profondamente, è stato un po’ silenziato, un po’ accantonato, un po’ emarginato all’interno del Partito Comunista. Con tutto che era un partito in cui in fondo c’era una vita Democratica intensa. Dentro però un po’ questo mito dei dirigenti e quindi non in un luogo facile e non in un luogo pienamente Democratico. 

All’inizio degli anni ‘70 lavora nel centro di studi e iniziative per la riforma dello Stato che analizza la crisi delle istituzioni in quegli anni difficili di scontri e cambiamenti. L’avvento degli “anni di piombo” vede la formazione di un governo di solidarietà nazionale e porta il PC dal ‘76 al ‘79 nell’area della maggioranza. Ai comunisti viene assegnata la presidenza di uno dei due rami del parlamento e nel luglio ‘76 diventa Presidente della Camera. Dopo l’uscita del PC dalla maggioranza nel ‘78 e l’arretramento nel ‘79 non accetta di mantenere la sua carica e torna al centro studi per la riforma dello Stato dove rimane presidente fino al ‘93. 

Ha accettato la sfida della presidenza della Camera con un fortissimo senso delle istituzioni, non era il momento di essere uomo di parte e questo tutti glielo riconoscono anche nel come gestito il suo ruolo di Presidente della Camera, però contemporaneamente continuando a essere se stesso, il primo luogo dove è andato è stato dagli operai e uno dei suoi interventi più belli da presidente della Camera è quello che ha fatto dopo che a Brescia era stata messa una bomba in una manifestazione antifascista, erano quindi morte molte persone, di cui tra l’altro per un caso di dove era stata messa la bomba tanti insegnanti, e andò lì come presidente della Camera e parlò del fatto che in quella Piazza erano insieme insegnanti, operai, che gli insegnanti erano venuti a scuola dalla classe operaia, che c’è una scuola della democrazia nella quale ognuno ha qualcosa da dare e disse questa frase per me è sempre bellissima e fortissima disse “non crediate voi che avete messo le bombe, noi questa idea che la politica è di tutti non la lasceremo morire”. Quello che ha voluto praticare è stato la politica di tutti, quindi io rispetto i pareri di tutti, il Parlamento è un istituzione Democratica di cui è importante che io garantisca il funzionamento democratico ma questa idea che la politica di tutti non si esaurisce nel parlamento, la politica è di tutti, è dell’operaio, è dell’insegnante o è democrazia partecipata o non è. L’idea che la democrazia non è solo nel momento in cui si mette la scheda nell’urna le democrazia è nel voler cambiare la propria vita giorno per giorno.

Gli anni ‘70 sono anche gli anni di una grande tragedia che colpisce un uomo insieme tutto il paese un orrore che ferisce tutte le parti politiche: il rapimento e poi l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse.

La tragedia di Moro io la ricordo anche come tragedia personale perché quando eravamo alle scuole elementari mia mamma ci mandò alla scuola Montessori perché era l’unica che non faceva i doppi turni e quindi conobbe la signora Moro e soprattutto la mia amica del cuore per tutte le scuole elementari era Anna Moro. Quando Moro è stato rapito io ero una giovane sindacalista, ho vissuto come tutti lo sconvolgimento, siamo andati in piazza, il senso di un attacco alla nostra democrazia la nostra Repubblica ma una delle prime cose che ho fatto è stato scrivendo una lettera ad Anna, quindi il tormento che viveva mio padre me ne sono sentita molto partecipe e anche il senso che quello che era successo a Moro poteva succedere anche a lui. In quei giorni lì vennero dei rappresentanti del partito bussarono e ad aprire la porta fu mia figlia, una bambina, e mi fecero un “lisciobusso” dicendo “ma come ma non ti rendi conto dei rischi fai aprire la porta alla bambina” e mi dissero che dovevano cambiare le nostre abitudini perché persino noi come figli e nipoti eravamo esposti per cui io che ero separata con bimbe piccole, facevamo i turni per portare i figli a scuola e decidevamo appuntamento ogni giorno nello stesso angolo della strada dissero “non puoi avere un appuntamento ogni giorno lo stesso ancora nella strada” perché sei esposto a rischio ma figurarsi se ti dicono sei tu a rischio che cosa abbiamo pensato anche del rischio che colpiva mio padre, non solo il dramma della scelta di fronte al fatto che era in pericolo Moro, ma il fatto che tutti i rappresentanti delle istituzioni erano in pericolo. Ho vissuto meno direttamente perché lui non ce ne ha mai parlato esplicitamente. Il suo travaglio interiore rispetto alla scelta di tener duro e di non trattare con le BR. Lui scrisse anche una lettera a mia madre dicendo “se io dovessi essere incarcerato qualsiasi cosa dica poi non dovete accettare una trattativa” però nonostante fosse convintissimo del fatto che non bisognava trattare perché questo avrebbe fatto crollare la democrazia, questa lacerazione la sentivi, è rimasta una ferita, per lui è rimasta una ferita profondissima quella morte, quel non aver potuto impedirla, quelle scelte di cui era convinto ma laceranti. 

C’è un episodio che dice molto se non tutto della ferita che il terrorismo rosso infliggeva alla sinistra più consapevole. È un dialogo tra Ingrao e sua moglie Laura su chi siano i terroristi che commettono queste atrocità, i terroristi non sono semplicemente compagni che sbagliano come diceva una certa sinistra in modo cavilloso e autoassolutorio. Per Laura Lombardo Radice la responsabilità della sinistra è molto più profonda. 

Allora c’era la violenza fascista che non dobbiamo mai dimenticare, ma c’era anche la violenza come quella dei rapitori di Moro che prendeva il colore rosso che per mio padre era il colore del cambiamento, della speranza, della giustizia, della solidarietà e lo tramutava nel rosso del sangue cioè in un’idea del cambiamento attraverso la violenza. Lui ha sempre lottato dicendo “Quelli sono i nostri nemici” però ha sentito il bisogno di fare i conti e mi ricordo che mia madre è stata la prima a dirglielo: “Guarda che questi in qualche misura sono anche figli nostri se fanno delle cose terribili non ci dobbiamo fare i conti perché sono i nostri nemici ma sono nostri nemici che sono nati dal nostro seno” quindi questa coscienza che questa tragedia era ancora più grande perché quelle Brigate si auto definivano rosse, insanguinavano quella che per lui era tutta la sua identità tutta la sua storia.

Il percorso di Ingrao negli anni successivi è molto coerente: aderisce alla linea di Berlinguer, insiste sul giudizio negativo nei confronti del Comunismo sovietico, fa un’altra cosa molto rara non solo coi tempi. Per favorire il ricambio generazionale promosso dalla segreteria di Achille Occhetto che veniva proprio dalla sinistra ingraiana si dimette nel 1989. Aderisce nel ‘91 al neonato Partito Democratico della sinistra mantenendo un ruolo come coordinatore dell’area dei comunisti democratici ma nella sua riflessione diventa centrale il tema della Pace e del disarmo. Nel ‘92 rinuncia alla candidatura alle elezioni e l’anno successivo prende la sofferta decisione di uscire dal PDS, dimettendosi anche da presidente del centro riforma dello Stato e aderendo a Rifondazione Comunista. Il suo impegno politico però non si affievolisce perché partecipa a tutte le proteste pacifiste unendosi alle marce che negli anni si susseguono. Torna infine alla sua originaria passione per la letteratura e la musica che coltiva fino alla sua morte nel 2015.

Entriamo su un terreno molto delicato: allora non sta a me dire se mio padre ha fatto non ha fatto un bilancio della sua vita, ha continuato a essere fedele alle cose in cui credeva, ha avuto anche la saggezza di scegliersi un ruolo diverso man mano che invecchiava quindi non solo ha scritto la sua autobiografia ma ha scritto anche altri libri, diciamo si è dato maggiormente un ruolo di persona che offriva il suo contributo di idee di pensiero piuttosto che voler stare sulla politica del quotidiano. Noi figli abbiamo vissuto tanto la sua dolcezza, la sua capacità di affrontare il dolore terribile che è stata la morte di mia mamma, mia mamma è morta nel 2003, l’anno in cui è scoppiata la seconda guerra del Golfo e mio padre ebbe la forza di andare sul palco della manifestazione contro la guerra quando già vedeva che la stava perdendo ma è stato un dolore enorme ed è riuscito a superarlo ad affrontarlo mantenendo vivi i suoi interessi le sue passioni e anche però in qualche modo accettando la vecchiaia, accettando la sua debolezza, accettando di essere aiutato, cercando di comunicare anche cercando di comunicare anche magari con con la musica magari con la poesia. Non a caso noi quando è stato il suo funerale che si è svolto a Montecitorio poi si è svolta anche al paese ma si è svolta a Montecitorio, abbiamo suggerito e chiesto come film che in finale ci fosse Ambrogio Sparagna che era un suo carissimo amico che continuava a venire a casa lì cantava insieme le canzoni del patrimonio comunista e antifasciste, le canzoni del suo paese. E infatti noi abbiamo chiesto e così è stato ed è stato un momento bellissimo che Ambrogio ha suonato in piazza prima “Bella ciao”, noi avremmo voluto anche bandiera rossa però bandiera rossa chiedere alla Camera dei Deputati che si suonassero.. la Cantò la piazza e poi ha cantato la canzone preferita di mio padre che era “Amara terra mia” che parla del lasciare la propria terra parla della migrazione e parla di cose che lui aveva molto nel profondo e cioè il legame con la propria terra, il dolore perché questa terra non è libera solidale ma è amara, è dura per chi ci vive in qualche modo però è tanto tanto amata come lui ha tanto amato il suo paese nativo che pure gli ha dato tanto dolore perché un paese che è rimasto sempre conservatore. Lui però ne amava la natura ne amava le persone e sia lui che mia mamma sono lì il cimitero del paese e quando dopo la cerimonia a Montecitorio i paesani hanno voluto che si facesse una cerimonia anche al suo paese e c’è stata questa cosa bellissima che è venuto tutto il paese anche quelli che magari non si sarebbero mai sognati di votare per lui con l’accompagnamento a piedi fino al cimitero fuori dal paese che è una cosa che chi vive in città dimentica è una cosa di un’umanità profonda. Lui non lo so se l’avrebbe voluto così io penso forse di sì. So che è una delle cose che più gli piacevano nella fase finale della sua vita era quando Ambrogio andava a cantare per lui o quando uno di noi prendeva la Divina Commedia o Leopardi e gli leggeva le poesie del suo amato Leopardi quando lui con la vista non ce la faceva più a leggerle con i suoi occhi.

Oltre alla politica e alla famiglia c’è un’altra passione di Ingrao che vale la pena raccontare prima di salutarci: il cinema, sia perché da giovane frequentò il centro sperimentale lavorando con Luchino Visconti alla stesura di “Ossessione” nel 1943 ma anche perché una delle figure da lui più amate è un personaggio sorprendente.

Per mio padre non c’è stata soluzione di continuità, c’è stata soluzione di continuità nelle scelte pratiche di vita, ma l’idea che nel suo slancio a cambiare il mondo ci fosse una componente spirituale una componente di passione per quello che c’è nel profondo dell’animo umano per lui è stato sempre qualcosa di completamente coerente compresa la coscienza dei limiti della politica. Non tutto può essere detto dalla politica con le parole della politica. Tant’è vero che lui ha scritto poesie. Il cinema allora sicuramente era anche però una scelta di libertà, la passione per Charlie Chaplin è stata la passione di mio padre per tutta la vita. Non solo il Charlie Chaplin di “Tempi moderni”, nel film in cui Charlie Chaplin racconta l’animazione della fabbrica, uno potrebbe pensare la passione per Charlie Chaplin in quanto denuncia sociale. Ma se tu gli chiedevi qual è la scena di Charlie che ti piace di più, che ti commuove di più, ti parlo di “luci della città” che è il film nel quale c’è questa ragazza cieca fioraia e c’è Chaplin che la sua solita figura del vagabondo poverissimo che l’aiuta e nell’aiutarla lei non sa che la sta aiutando uno poverissimo. Quando lei finalmente recupera la vista alla fine del film spera sempre che ricompaia questo Ignoto benefattore che lei immagina ricchissimo, bello ed elegante. E c’è il momento in cui toccandogli le mani proprio alla fine del film lo riconosce e guardandolo si rende conto che è un povero vagabondo miserevole e la scritta che compare, perché parliamo ancora di film muti, lui le dice “ora ci ved”i e lei dice sì “Ora vedo” e si toccano le mani e questo ora vedo dice tutto. Ecco quella era la scena preferita di mio padre, quella generosità che lui ha visto incarnata nell’idea del comunismo di una società di eguali di una giustizia sociale però anche l’amore, anche l’amore forse è impossibile e anche l’umanità profonda, quello che c’è nel fondo dell’animo umano.

La testimonianza di Ingrao è una provocazione per tutti, crediamo sia per chi era d’accordo con lui sia per chi ha lottato per altri ideali perché ci insegna che si può amare così tanto la propria libertà da non farla imprigionare nemmeno dalle proprie idee che infatti ha cercato di mettere sempre in discussione. Una frase famosa di un poeta americano dell’Ottocento dice che solo i morti e gli stolti non cambiano idea. Ecco, Pietro Ingrao è un esempio di coloro che anche rischiando di fare molti errori non hanno mai rinunciato ad essere ferocemente vivi. 

Le figlie della Repubblica è una delle iniziative che trovate su fondazione degasperi.org, grazie al contributo di Fondazione Cariplo e al sostegno dell’Istituto Gentili, nata da un’idea di Martina Bacigalupi e realizzata da WIP Italia. È stato raccontato da me, Alessandro Banfi, ed è stato scritto e diretto da Emmanuel Exitu. Con la supervisione storica di Antonio Bonatesta e la collaborazione degli amici giovani della Fondazione De Gasperi nelle persone di Martina Bartocci, Iacopo Bulgarini, Miriana Fazzi, Federico Andrea Perinetti, Gaia Proietti, Luca Rosati, Sound Design di Valeria Cocuzza, registrazione in studio di Marco Gandolfo, per una produzione WIP Italia.


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