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podcast

Le Figlie della Repubblica - Stagione 1

#Episodio 3

Flavia Piccoli racconta il padre Flaminio

SINOSSI

Uomo di partito, Piccoli ha legato il suo nome alla Democrazia cristiana e alle profonde radici del cattolicesimo tridentino. Questo podcast ci racconta, attraverso il ricordo della figlia Flavia, il percorso politico del padre, segnato dal confronto con le grandi traiettorie disegnate da Fanfani e, soprattutto, da Moro. La rievocazione si sofferma sui momenti più pregnanti della vicenda di Piccoli, per ben due volte alla guida del partito, fino al tragico assassinio di Moro. 


BIOGRAFIA

Piccoli, Flaminio (Kirchbichl, 28 dicembre 1915 – Roma, 11 aprile 2000) – Uomo politico italiano. Formatosi politicamente nell’associazioni studentesca “Juventus” e nell’Associazione degli Universitari Cattolici Trentini (Auct), fu mandato al fronte nel secondo conflitto mondiale; fuggito dalla prigionia in un convoglio tedesco, partecipò attivamente alla Resistenza e guerra di liberazione, tra le fila della Democrazia cristiana. Affiancò da sempre la carriera politica a quella giornalistica.

Scelto nel 1945 come direttore de “Il Popolo trentino” (ribattezzato “L’Adige” nel 1951), guidò le battaglie del partito nel secondo dopoguerra, distinguendosi nella polemica anticomunista e per l’attenzione alle gerarchie ecclesiastiche.

Nel 1957 l’elezione a segretario provinciale del Dc lo introdusse sulla scena politica nazionale, segnando l’inizio della sua longeva esperienza parlamentare (1958-1994). Già presidente del Consiglio nazionale del partito, si avvicinò alla corrente interna dei “dorotei” e partecipò all’iniziativa politica che segnò la nascita della cosiddetta “seconda generazione”, a scapito di quella “degasperiana”.

Negli anni Settanta, fu tra i più significativi protagonisti del panorama politico: di rilievo, il progetto di legge che diede vita nel 1974 alla legge sul finanziamento pubblico dei partiti e l’incarico come Ministro delle Partecipazioni Statali (1970-72). Durante i giorni del sequestro Moro, fu uno dei cinque uomini della delegazione del partito che ne sostituì la direzione, rimanendo fedele sostenitore della linea della fermezza.

Nella fase del “dopo Moro”, svolse un’intensa attività di politica estera e pose l’accento sull’esigenza di un’unità di tutte le forze politiche sulle questioni internazionali. Venne eletto presidente della Commissione Esteri della Camera, e ricoprì la carica di presidente dell’Internazionale democristiana dal 1986 al 1989.

Le prime inchieste di Tangentopoli segnarono la campagna elettorale per le elezioni politiche del 1992 e la fine dell’esperienza della Dc nel 1994. Escluso dalle candidature del partito, negli ultimi mesi di legislatura confluì nel gruppo del Partito popolare italiano (Ppi). Dedicò gli ultimi anni della sua vita al movimento per la Rinascita della Democrazia cristiana, da lui fondato nel 1997 nel vano tentativo di ricostituire il suo vecchio partito.


TRASCRIZIONE PODCAST

Avevo 10 anni, mio padre ebbe un gravissimo esaurimento nervoso era convinto di avere ragione, la sera mangiavamo, cenavamo, dopo di che lui si alzava, evidentemente aveva senso d’ansia capisco adesso, si sentiva soffocare aveva cose di questo genere metteva il cappotto e usciva di casa e mia madre mi faceva segno, io prendevo il cappotto e andavo con lui. Quindi immaginate una bambina per mano a un uomo in giro per una Trento deserta, freddissima, l’ho accompagnato, non parlavamo e mi ricordo ancora la mia mano nella sua, ecco per me questo è stato avere il coraggio di portare avanti le proprie posizioni. Ho interiorizzato in questa maniera, era per aiutarlo, naturalmente per il mio modo di aiutarlo.

Le figlie della Repubblica è un podcast della Fondazione De Gasperi realizzato in collaborazione con il Corriere della Sera e con il sostegno della fondazione Cariplo, una serie di ritratti molto speciali delle grandi figure della nostra Repubblica raccontate da un punto di vista più vicino, più familiare e più intimo: quello delle loro figlie sono Alessandro Banti e in questa puntata raccontiamo Flaminio Piccoli con i ricordi di sua figlia Flavia Piccoli Nardelli segretario generale dell’Istituto Luigi Sturzo per più di vent’anni  parlamentare della Repubblica dal 2013. Flaminio  Piccoli è un protagonista della politica dal secondo dopoguerra al 2000, crede fermamente nella politica dal basso e un uomo con i piedi ben radicati nella propria terra e nella propria tradizione, considerate un punto di vista privilegiato per guardare oltre. Ha avuto ruoli importanti due volte segretario della Democrazia Cristiana nel ‘69 e nell’80, Ministro delle partecipazioni statali dal ‘70 al ‘72, capogruppo alla Camera dei Deputati Presidente del Consiglio Nazionale del partito e dell’internazionale democristiana. Era noto per la sensibilità alle questioni economiche sociali e per il fatto raro per un politico che parlava chiaro.

Mio padre era il figlio di un archivista, suo padre aveva un nome bellissimo, Bennone si chiamava, erano nomi scelti apposta per non poter essere tedeschi usati nel Trentino austriaco; venivano da una storia familiare in cui erano andati in Brasile, i suoi nonni, in cerca naturalmente di benessere quindi erano quelle migrazioni che nel nord cattolico spesso portarono in America Latina per i paesi famiglie che hanno faticato che hanno portato dietro questo senso di che cos’è la difficoltà del vivere, che cos’è la preoccupazione con una profonda fede nella Divina Provvidenza, che anche questo fa parte delle tradizioni di un mondo contadino in origine. E che si alimenta anche di un cattolicesimo come era il cattolicesimo tridentino, fatto di bravissimi preti vicini alle persone, vicini alla gente, capaci di quello che era il cattolicesimo sociale in cui si è nutrito De Gasperi in cui si sono nutriti moltissimi mondi. Era un uomo apparentemente perché poi in realtà ha avuto dei momenti di grandissimo coraggio, il senso dell’ingiustizia non lo tollerava. L’altra cosa era che era molto disordinato, non badava assolutamente a come si vestiva quindi io ricordo che mia madre sempre gli metteva i calzini sul letto, gli metteva la camicia eccetera, perché per lui uscire con un calzino nero o bluera  assolutamente la stessa cosa. Non aveva particolari interesse per il cibo, patate lesse cotte con la buccia e formaggio erano il pasto che lui preferiva sicuramente. Ma io ho tutta una storia di cose di questo genere, perchè se vi devo raccontare Mariano Rumor che veniva a casa nostra cena regolarmente che cosa voleva? un ovetto non erano persone dai gusti particolarmente raffinati e complicati.

Se guardiamo una foto di Piccoli vediamo un uomo dalla faccia mite, i capelli neri sempre pettinati all’indietro, gli occhi chiari e tranquilli, nessuna caratteristica dell’uomo d’azione, eppure negli anni della seconda guerra mondiale, Alpino nei Balcani, è protagonista di episodi difficili e e avventurosi dove spicca il suo coraggio fisico e morale.

Era coraggioso non in senso tradizionale è nato nel 15, quindi lui ha vissuto sotto Impero, l’impero austoungarico, ha vissuto sotto il Regno d’Italia e ha vissuto e ha costruito la Repubblica in cui questo paese vive oggi. Una storia che è passata attraverso fasi diverse, che ha attraversato tutto il Novecento, in questa lunga storia lui ha avuto varie forme di coraggio. Durante la guerra lui era ufficiale degli Alpini Montenegro in Albania ha avuto una medaglia d’argento per aver cercato di salvare un suo Alpino che non è riuscito a salvare fino annegato e lui si è salvato perché raccontava di aver visto una radice di essersi aggrappato a questa radice e di essere tornato a galla. Ma io mi ricordo, bambina, questa vecchia contadina che veniva a portare i biscotti a Natale per ricordare suo figlio anche ricordare quello che era stato un tentativo di salvarlo. Parliamo di un coraggio di altro genere perché in Francia con l’8 settembre gli ufficiali furono presi e portati via nella cortile della caserma in cui erano  acquartierati, il tentativo di farli passare con la Repubblica di Salò, cioè il momento in cui tutti gli ufficiali furono chiamati a decidere coi tedeschi là davanti se decidevano di passare con la Repubblica di Salò o se andavano in campo di concentramento. Chi faceva un passo avanti decideva in un modo e chi restava fermo decideva in un altro, mio padre decise naturalmente che non sarebbe andato con Salò, era fondamentalmente antifascista per la sua educazione. Era cresciuto nel mondo cattolico trentino con grandi figure di vescovi e di sacerdoti e quindi faceva parte del suo dna la diffidenza verso il regime. Dal treno che li portava in campo di concentramento rocambolescamente riuscì a fuggire, aveva una faccia da ragazzino e si mise un trench aveva un trench sapeva benissimo il francese, si buttò dal treno in stazione, prese sotto braccio una signora e le disse “Per favore mi accompagni fuori” e la signora, aveva l’aria da ragazzino, non si spaventò, lo accompagnò fino in fondo alla stazione e da lì è riuscito poi vestito  da scout ad attraversare le Alpi a tornare a casa.

I primi passi nella politica sono in salita all’insegna dello scontro con Luigi Gedda, influente leader dell’azione cattolica e fautore di una linea politica che vuole spostare l’asse delle alleanze e degli equilibri politici a destra. Questa questa volontà solleva la resistenza di De Gasperi e di moltissimi cattolici tra cui in Trentino il giovane Piccoli. Il contrasto diventa molto aspro e pochi giorni dopo un suo articolo critico della linea di Gedda il Sant’Uffizio chiede alla curia di Trento di rimuovere Piccoli dagli incarichi nel partito e dalla presidenza diocesana dell’azione Cattolica. È una costante di molti politici democristiani nel secondo dopoguerra a partire dallo stesso De Gasperi. Da una parte l’adesione agli ideali cristiani dall’altra la continua ricerca di un’autonomia politica della DC dall’influenza delle sfere ecclesiastiche.

È stata una vicenda molto pesante, questa esigenza ve la racconto da un punto di vista personale e familiare, il pesantissimo conflitto con Gedda, nella percezione dei giovani di Azione Cattolica, era un uomo di destra quindi Gedda veniva visto come l’antitesi a una posizione che era quella degasperiana. Lui e Monsignor Francesconi che erano il presidente di Azione Cattolica e l’assistente di Azione Cattolica fecero una lettera in cui presero posizioni a nome di tutta l’azione Cattolica Trentina su questa vicenda di mio padre, appunto lo sospesero a divinis quindi una presa di posizione pesantissima per chi credeva.

Dopo questo periodo buio Piccoli comincia nel ‘58 la sua lunga esperienza parlamentare che si concluderà 36 anni dopo. All’inizio sarà dura per la lontananza della famiglia; decide così di portare tutti con lui a Roma, la moglie Maria e i tre figli e fu per loro una grande scoperta non solo della capitale ma anche del proprio papà.

Noi siamo in tre, io sono la più vecchia sono nata nel 1946, mio fratello Mauro nel ‘49, mia sorella Annalisa nel ‘54, lo dico perché la mia era una famiglia molto unita mio padre mia madre erano legatissimi fra di loro, erano veramente molto innamorati, a tal punto che il loro rapporto era un rapporto fortissimo fondamentale. E noi figli venivamo dopo in questo rapporto e lo percepivi, lo sentivi, lo sentivi in modo positivo. Questo rapporto era così forte che mio padre entrò in parlamento e viveva faticosamente il fatto di andare e venire da Roma. Roma Trento erano otto ore di treno, quindi a un certo punto decisero di portarci a Roma, fecero questo grande trasferimento familiare. Anche perché era un anno in cui io cominciavo all’università, mio fratello Mauro IV ginnasio e mia sorella la prima media, ci trasferirono, papà era diventato vicesegretario della Democrazia Cristiana naturalmente facendo una cosa che un politico faceva molto difficilmente. Cioè quello di abbandonare il proprio collegio elettorale, per cui noi arrivammo a Roma in un periodo poi complicato, ci sarebbe stato di lì a poco il ‘68, in mezzo a quello che era un fermento fortissimo e in un momento in cui il mondo romano per noi era un mondo alieno, eravamo abituati a vivere a Trento, abituati a contare per conto nostro. Arrivati a Roma scoprivamo che nostro padre comunque era una persona conosciuta, nota e naturalmente noi reagivamo male a questo. E la famiglia comunque si trovò più unità di prima, stranamente di fronte a una città che capivamo in parte, in parte ci sembrava estranea, a dei valori che sentivamo non erano i nostri, appunto ci fu questa fortissima coesione familiare di nuovo. Noi abbiamo sempre vissuto la vita politica di nostro padre come un dato di fatto e la cosa forse che oggi mi colpisce di più una generosità verso noi bambini. Lui tornava a casa stanchissimo immagino perché vedo come torno a casa io distrutta la sera a volte, e si fermava a raccontarci cosa era successo, a spiegare a noi i bambini complicate vicende politiche, dando a noi la sensazione e la percezione che fossimo in grado di capirle. Lui la sera alle 9 si metteva al telefono e dettava l’articolo di fondo perché c’era quest’altra nota che era l’aspetto pedagogico della politica, quello stesso tipo di logica per cui a noi i bambini raccontava, diventava questa capacità e questa voglia e questo impegno che era quello di spiegare cosa stava succedendo.

Torniamo al 1958 quando diventa parlamentare e nel momento in cui comincia un tumultuoso passaggio economico e sociale. Fanfani e Moro con diverse strategie puntano ad aprire una nuova fase politica, quella del centro-sinistra basata sul coinvolgimento al governo del Partito Socialista di Nenni. Flaminio Piccoli diventa un esponente importante della corrente moderata dei dorotei che nasce con l’obiettivo di opporsi alla linea di Fanfani, considerata prematura e personalistica. Quando Moro passa alla guida dei centro-sinistra dal ‘63 al ‘68 i dorotei si pongono l’obiettivo di moderare il riformismo del centro-sinistra e limitare le forti trasformazioni che la programmazione economica intendeva portare nel paese.

Per lui contava molto più il partito che non il Governo. La DC è stata un grande magma di culture politiche, non sono stati dedicati studi adeguati e accurati ad alcuni settori. I dorotei sono stati visti con una cattiva stampa come coloro che dentro la Democrazia Cristiana rappresentavano il potere. In realtà la percezione che io ho avuto e che oggi a tanti anni di distanza nella rilettura che vi faccio, io devo dire che c’è una basa in questo caso davvero di cattolicesimo e sociale, che cosa è stato il dibattito, che cosa è stato il dibattito che ha visto contrapporsi a Fanfani, contrapporsi sull’apertura al partito socialista, rifiuto di una politica di vertice, un tentativo comunque di un coinvolgimento, di un maggior coinvolgimento dell’elettorato e poi anche nei vari territori, una percezione diversa degli apporti politici, in Trentino il socialismo era un socialismo difficile accettare, in una realtà che era quasi tutta bianca e funzionava, il partito, su un principio molto forte che era quello dei corpi intermedie che era quello del collateralismo. 

I movimenti del ‘68-69 sono un passaggio chiave per la storia del nostro paese se vogliamo però per Piccoli quel triennio lo è stato ancora di più perché nel ’69 viene eletto segretario nazionale della DC mentre sua figlia si laurea.

Io in teoria sono una ragazza del’ 68, mi iscrivo a filosofia a Roma e quindi mi trovo nel pieno del marasma. Mi trovo con i collettivi, mi trovo con le forme più violente di reazione, mi trovo con i cortei di cui Pasolini parla. Mi trovo il giorno della mia tesi di laurea nel ’69 con mio padre segretario della Democrazia Cristiana che non viene alla mia tesi di laurea ma viene fino alla chiesa della Sapienza per venirmi incontro quando io mi laureavo. Mio padre fa il segretario del partito in quei mesi come segretario di una transizione quindi difficile, faticosissimo ma gira l’Italia freneticamente nel tentativo di dare spazio a quel desiderio di cambiamento, quindi senza rifiutarlo anzi cercando di accoglierlo e di girarlo in positivo. Casa nostra era una casa in cui c’era sempre una tavola apparecchiata in cui c’eravamo noi ragazzi che tornavamo da scuola, c’era mio padre che arrivava magari alle 2 del pomeriggio che portava con sé i suoi colleghi e in cui c’erano i miei compagni di università, c’erano gli amici di mio fratello di ginnasio e c’era questo scambio continuo per cui c’era questa comunità di che cosa accadeva fuori. Ecco non erano politici che fossero staccati dalla realtà, erano immersi nella realtà.

Dopo la segreteria nazionale della DC Piccoli diventa Ministro delle partecipazioni statali dal ‘70 al ‘72, si tratta di riorganizzare la presenza pubblica in economia in un momento di grandi shock, prima l’aumento dei salari dovuto all’autunno caldo e alle rivendicazioni sindacali, poi la crisi del sistema fordista basato sulla catena di montaggio. Sul fronte politico Piccoli, che crede fermamente al sistema dei partiti, dopo vari scandali ed episodi di corruzione si impegna per l’approvazione nel ’74 della prima legge sul finanziamento pubblico dei partiti che impone la presentazione di un bilancio e disciplina il finanziamento privato.

Lo votano tutti i gruppi politici presenti in parlamento, è il risultato di un lunghissimo lavoro di cui c’è testimonianza negli archivi, un lungo lavoro che vede le altre forme di finanziamento pubblico presenti in Europa e un esame accurato per esempio del modello tedesco, che fa passare il finanziamento pubblico attraverso le grandi fondazioni, la Fondazione Adenauer, la Ebert, grandi fondazioni che in Germania hanno il compito di consentire che la politica la facciano tutti, ma devono essere in grado di farlo sia il contadino che ha delle cose da dire sia il grande avvocato che rinuncia a portare avanti il suo lavoro per fare politica. E i partiti devono essere liberi dall’andare a cercare risorse perché andare a cercare risorse significa rinunciare alla propria libertà. Ecco perché mio padre lo firma per primo e mio padre non si è mai pentito di aver firmato quella legge. Pensava fosse una battaglia che era opportuno fare, fa parte di quel realismo di cui parlavamo prima, di grande idealismo da una parte ma di realismo dall’altra, per esempio nella legge sull’aborto a me ha sempre detto che era sbagliato l’atteggiamento di chi credeva che il partito dovesse bloccare una cosa di questo genere. Lui diceva un grande partito deve accompagnare fenomeni complessi di questo tipo per cercare di far sì che gli esiti siano esiti accettabili per tutto il paese.

Come sappiamo Piccoli si oppone a Moro, sostenitore negli anni sessanta del centro-sinistra e che ora negli anni ‘70 punta al coinvolgimento del PC nella maggioranza, con l’obiettivo di far uscire l’Italia dalla crisi e dal terrorismo. All’apice dell’esperienza dei governi di solidarietà Nazionale le Brigate Rosse però rapiscono Moro, il 16 marzo 1978. Piccoli assieme ad Andreotti e Cossiga fu tra i più intransigenti sostenitori della linea della fermezza.

Il nove di maggio è il compleanno di mio fratello eravamo a casa dei miei per un pranzo di compleanno mio padre non arrivava, arrivò una telefonata dalla camera che affannosamente diceva “l’hanno trovato in via Caetani” invece l’avevano trovato morto in via Caetani loro erano a pochi passi perché erano nella sede di Piazza del Gesù c’era la direzione nazionale che avrebbe dovuto essere molto importante perché Fanfani aveva preso impegno, preso impegno fra virgolette, per cui avrebbero fatto una certa apertura per portare avanti la trattativa. Mio padre faceva parte della delegazione che durante i 55 giorni trattò per Moro. Erano Bartolomei per il Senato mio padre per la camera Zaccagnini naturalmente e piccolissimo gruppo che aveva avuto delega dalla direzione nazionale di gestire le trattative. Ricordo quei giorni benissimo i miei figli erano piccoli, io insegnavo moro fu rapito a un chilometro e mezzo dietro casa nostra. Fin dall’inizio ci furono perquisizioni, io ricordo agenti che passavano continuamente che entravano nelle nostre cantine tutta quella zona di Monte Mario fu presidiata in questa maniera, perché da lì passarono i brigatisti, lasciarono poi le macchine usate per il rapimento per andare poi altrove. E ci fu un coinvolgimento pesantissimo anche da un punto di vista morale, umano, i democristiani sentirono subito i dirigenti democristiani quella che era la responsabilità di una decisione spaventosa da prendere di fronte soprattutto ai morti che erano rimasti sulla strada e alle famiglie di quei morti. Quindi la trattativa era una trattativa che fin dall’inizio si imponeva come asimmetrica, come ingiusta.

Aldo Moro scrive molte lettere dalla prigionia e una indirizzata proprio a Flaminio Piccoli chiede di perseguire la via della trattativa, scrive Moro “non una ma più volte furono liberati ma più volte furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche condannati allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero state poste in essere se fosse continuata la detenzione. La minaccia era seria, credibile anche se meno pienamente apprestata che nel caso nostro. Uguale il vantaggio dei liberati, ovviamente trasferiti in paesi terzi ma su tutto questo fenomeno politico, vorrei intrattenermi con te che sei l’unico cui si possa parlare a dovuto livello, che Dio lo renda possibile”. Moro chiedeva a Piccoli di fare intervenire i servizi segreti italiani responsabili per il Medio Oriente che conoscevano la materia degli scambi di prigionieri.

Io ricordo le lunghe discussioni con mio padre, in fondo quella bambina che andava per le strade di notte era sempre disponibile ad ascoltarlo nel momento in cui raccontava delle ansie e delle preoccupazioni di che cosa decidere, di che cosa fare, e di quelle lettere che arrivavano, che arrivavano nelle maniere più strane, nei cestini delle lettere portate da segretario di Moro che erano un misto del Moro che conoscevano e di un Moro disperato, di un Moro che aveva nostalgia della sua famiglia che si preoccupava della sua famiglia che con grande intelligenza probabilmente dettava la linea anche i suoi carcerieri in parte o tentava di dettare la linea ai suoi carcerieri, quindi quelle lettere che erano lettere fatte per essere lette in pubblico o erano lettere in parte che Moro pensava rimanessero riservate? Certo per come poi venivano proposte erano lettere invece pubbliche per cui mio padre visse quella lettera naturalmente per quello che era, un tentativo di chiamata alla responsabilità. C’è una foto mia e sua in cui siamo vicino a casa una siepe di edera e siamo tutti e due che parliamo ascoltati. Ricordo che la conversazione era una conversazione di quelle pesanti, faticose, in cui lui mi raccontava l’ansia di non riuscire a trovare il bandolo della matassa, di non riuscire a tirarlo fuori diceva, a tirarlo fuori di lì. Conoscevano Moro e conoscevano la sua ossessione, non amava farsi toccare, soffriva il contatto fisico con gli altri con le persone, mi ricordo che lui raccontava e diceva “pensa come deve trovarsi in una situazione di questo genere in una promiscuità costretta” poi c’era tutta la parte in cui lui parlava di Luca il suo nipotino mio padre amava moltissimo i suoi nipoti veniva la sera che veniva la mattina a salutarli, con la scorta che lo costringeva a fare lunghi percorsi per non fare sempre la stessa strada, per vederli i bambini erano piccoli piccoli. Quindi quando Moro nelle sue lettere parla di Luca, parla di suoi nipoti la viveva come una percezione di chi vive lo stesso tipo di esperienza. Mio padre istintivamente sarebbe stato per la sua famiglia. La percezione comunque era quella di dover reggere perché lo Stato doveva reggere. Perché l’Italia in realtà si portava dietro una concezione di Stato che era una concezione ancora molto giovane, mancava al nostro paese nella percezione che lui aveva ma molti dei suoi amici avevano, quella che era la sicurezza di uno Stato forte di suo.

Con la morte di Moro e la fine dei governi di solidarietà nazionale Piccoli torna alla segreteria della DC dettando una linea di chiusura a ogni forma di collaborazione con i comunisti tra l’80 e l’82 deve affrontare le tragedie e gli scandali che colpiscono il paese dalla strage di Bologna al terremoto in Irpinia alla scoperta della loggia P2. Nell’81 poi Piccoli vive la sconfitta dei cattolici nelle referendum sull’aborto, sono tutti passaggi che un decennio più tardi portano alla fine della prima Repubblica e allo scioglimento della stessa DC, un esito che Piccoli non riesce ad accettare. 

I litigi con mio padre, ci sono stati litigi veri, seri soprattutto. Nell’ultima parte della sua vita quando lui non accettava che finisse la Democrazia Cristiana e si arrabbiava con me diceva “Non capisci, non capisci, un partito è una cosa importantissima, è la speranza di un paese, tu leggi troppo i grandi quotidiani, leggi Repubblica, leggi il Corriere leggi la stampa, non è questo il paese, se tu vuoi capire il paese non dovrai mai passare per questo tipo di filtri, non sono questi, i partiti sono un’altra cosa” e quando io lavoravo all’istituto Sturzo e quindi in una delle grandi fondazioni che si occupano della cultura politica e delle culture politiche di questo paese e lo Sturzo era in quel momento una sorta di think tank e di laboratorio sul che cosa fare di fronte a una crisi come quella che aveva coinvolto dal ‘94 in poi i partiti politici rovinati e appiattiti sull’immagine di Tangentopoli in cui pareva che nessuno nel paese riuscisse più a cogliere o a capire che cos’è era una funzione che un partito, con orgoglio e con dignità, doveva poter svolgere. Mio padre non accettava un’idea di questo genere, la vedeva come un’idea incapace di cogliere che cosa era stato fatto per questo paese il ruolo che aveva svolto la Democrazia Cristiana. Gli sembrava che in questa condanna generalizzata si perdesse davvero il senso di che cosa era stata l’esperienza di un paese povero che era riuscito a raggiungere un certo benessere economico ma che era riuscito soprattutto a raggiungere consapevolezza di sé, diceva. Dal suo punto di vista non erano gli anni Settanta del benessere erano gli anni Settanta delle varie riforme che si erano raggiunti dalla scuola per tutti e nel tentativo di portare l’università a tutti, di portare il servizio sanitario a tutti, e per cui quando io gli dicevo “non puoi più ricostruirla è finita quel tipo di esperienza” e lui mi diceva “Ti sbagli, le operazioni si fanno con coraggio ma se pensi che siano giuste le devi fare” e questo è il ricordo, sono i ricordi finali di mio padre e della sua sofferenza. Io lo ricordo nell’ultima fase della sua vita sofferente per queste cose, felice della sua vita familiare, legatissimo a mia madre, legatissimo a noi, legatissimo ai suoi nipoti curioso attento sempre, un grande lettore e però con grande dolore con grande sofferenza per quello che era stata la sua vita, le cose in cui aveva davvero creduto.

È un po’ una costante delle grandi figure che stiamo raccontando. Molti dei progetti nati dall’ideale in cui questi protagonisti hanno creduto, non riescono a reggere i cambiamenti politici e sociali e finiscono. E questo naturalmente è un dolore perché ha costruito quei progetti costruiti con fatica e passione, non cambia però il valore della forza ideale e soprattutto non cambia la lezione di chi ha vissuto fino in fondo le proprie idee. Avere questo coraggio rende la vita degna di essere vissuta fino in fondo.

Le figlie della Repubblica è una delle iniziative che trovate su fondazione degasperi.org, grazie al contributo di Fondazione Cariplo e al sostegno dell’Istituto Gentili, nata da un’idea di Martina Bacigalupi e realizzata da WIP Italia. È stato raccontato da me, Alessandro Banfi, ed è stato scritto e diretto da Emmanuel Exitu. Con la supervisione storica di Antonio Bonatesta e la collaborazione degli amici giovani della Fondazione De Gasperi nelle persone di Martina Bartocci, Iacopo Bulgarini, Miriana Fazzi, Federico Andrea Perinetti, Gaia Proietti, Luca Rosati, Sound Design di Valeria Cocuzza, registrazione in studio di Marco Gandolfo, per una produzione WIP Italia.


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