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podcast

Le Figlie della Repubblica - Stagione 3

#Episodio 4

Livia Zaccagnini racconta il padre Benigno

SINOSSI

Dall’impegno cattolico e resistenziale nelle Romagna a una vita interamente spesa a servizio del partito e del paese. La vicenda umana e politica di Zaccagnini riflette il percorso di una delle personalità più autentiche e al tempo stesso più malinconiche della Democrazia cristiana. La sua storia, infatti, è inevitabilmente legata a doppio filo alla straordinaria vicinanza con Moro e al sacrificio dello statista pugliese.

Questo podcast ci racconta, attraverso la voce della figlia Livia, la storia del padre, resa vibrante da uno spirito di servizio, responsabilità e grande abnegazione che non gli ha risparmiato prove traumatiche e immensi dolori.

Si ringraziano la Rai Direzione Teche e Radio Radicale per aver gentilmente autorizzato il materiale audio storico inserito nell’episodio.


BIOGRAFIA

Benigno Zaccagnini (Faenza, 17 aprile 1912 – Ravenna, 5 novembre 1989), medico e politico italiano, costituente (1946-48), più volte deputato (1948-83) e senatore (1983-89), ministro, segretario della Democrazia cristiana (1975-80). 

Zaccagnini nacque a Faenza da una famiglia di profonda osservanza cattolica. Il mestiere del padre, ferroviere, lo costrinse a numerosi spostamenti tra la provincia di Verona e Ravenna, dove completò gli studi superiori. Nel corso degli anni Trenta si laureò in Medicina e si specializzò in Clinica pediatrica prima a Bologna e poi a Roma.

Da studente, si avvicinò dapprima alla Gioventù cattolica e all’Azione cattolica, quindi alla FUCI, dove conobbe personalità come Aldo Moro e monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI.

Scoppiata la guerra, servì nell’esercito come ufficiale medico nei Balcani ma a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943 prese parte alla Resistenza. Allo stesso tempo, fu coinvolto nella formazione della Democrazia cristiana. Giunta la guerra al termine, nel maggio 1945 sposò Maria Anna Busignani e da questo matrimonio nacquero sei figli: Livia, Maria Grazia Rita, Carlo Francesco Maria, Giovanni, Luca e Stefano.

La partecipazione alla Resistenza e l’importante contributo offerto alla fondazione della Dc ravennate gli valsero l’elezione all’Assemblea costituente. Prendeva così avvio una lunga carriera parlamentare come deputato destinata a interrompersi solo con le elezioni politiche dell’estate 1983, quando fu eletto senatore della Repubblica. 

Affermatosi come personalità di rango nazionale nella Dc, alla fine degli anni Cinquanta Zaccagnini acquisì una definitiva centralità facendosi convinto sostenitore della linea del centro-sinistra voluta dalla segreteria Moro (1959-63). Ciò gli aprì inizialmente le porte del governo con diversi incarichi ma con l’avvento dei governi di centro-sinistra guidati da Moro (1963-68), lo statista pugliese volle che tutti i suoi più stretti collaboratori rinunciassero alle responsabilità ministeriali e così fu anche per Zaccagnini, il cui impegno tornò a rivolgersi prevalentemente al partito e alla rappresentanza parlamentare.

Nel luglio del 1975, Zaccagnini fu eletto segretario nazionale del partito, in una fase molto delicata per il paese, scosso dalla crisi sociale, economica e politica, e della stessa Dc, minacciata dalla crescita dei consensi al Pci. Tentò di favorire una stagione di rinnovamento dei quadri del partito ma soprattutto di dare filo alla complessa tela di Moro, impegnato nella difficile realizzazione della cosiddetta “solidarietà nazionale”, vale a dire il dialogo sempre più stretto con il Pci.

La sua segreteria fu però travolta dal rapimento e dall’assassinio di Moro da parte delle Brigate rosse. Zaccagnini si fece fautore, assieme a larga parte della Dc, della cosiddetta “linea della fermezza” e il conflitto tra lo stretto legame personale e politico con Moro e la ragione di Stato ebbe per lui conseguenze drammatiche. Dalla prigionia, infatti, Moro gli indirizzò tre lettere in cui lo collocava tra i principali responsabili della sua sorte e in cui erano contenuti giudizi severissimi.

Morto Moro e consumatasi definitivamente la parabola della solidarietà nazionale, nel febbraio 1980 si dimise dalla segreteria. 

Morì a Ravenna il 5 novembre 1989.


TRASCRIZIONE PODCAST

Appena appena, immediatamente stava tornando dagli ultimi momenti della resistenza, tirò fuori la custodia della pistola e fece vedere una pistola vuota, perché lui mi disse che non avrebbe mai potuto pensare di ammazzare un altro uomo. Quindi la sua battaglia si è svolta in motivi di comportamento, di aiuto agli altri, e quindi si era portato dietro la custodia e la pistola, ma la pistola era vuota.

L’uomo che portava in battaglia la sua pistola senza proiettili è Benigno Zaccagnini, costituente e più volte deputato e senatore, ministro e segretario della democrazia cristiana che racconteremo attraverso le parole di sua figlia Livia, classe 1946, assessora del comune di Ravenna e presidente della biblioteca Classense. Le figlie della Repubblica è un podcast promosso dalla fondazione Alcide de Gasperi che racconta le grandi figure della nostra Repubblica da un punto di vista più intimo e familiare, quello delle loro figlie. Benigno Zaccagnini nasce a Faenza il 17 aprile 1912 da una famiglia profondamente cattolica e antifascista. Il padre ferroviere è soggetto a frequenti trasferimenti, tanto che nel 1913 la famiglia si sposta in provincia di Verona, dove Zaccagnini rimane per circa dieci anni trascorrendo l’infanzia. A Verona frequenta il ginnasio che poi completa a Ravenna. Nel 1930 si iscrive alla Facoltà di Medicina dell’Università di Bologna e in seguito si specializza in clinica pediatrica presso l’Università di Siena. Conclude gli studi alla fine degli anni ‘30, avvicinandosi dapprima all’Azione Cattolica e poi alla FUCI, l’organizzazione degli studenti universitari cattolici dove conosce quelle personalità che influenzeranno la sua formazione culturale e spirituale. Tra questi vi sono Aldo Moro e Monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI.

Il mio nonno, suo padre, era un ferroviere. La famiglia era una famiglia numerosa, cinque fratelli. La cosa che mi ha sempre raccontato è che la disponibilità dei miei nonni era di lasciargli scegliere ciò che desideravano fare. L’importante era che avessero dei principi e che li mantenessero. Lui si è laureato in medicina e poi in pediatria e poi si è impegnato in un istituto di volontariato, di Santa Teresa si chiamava, che era di Ravenna, per seguire i bambini e mi ha sempre detto semplicemente che lui si sentiva adatto a questo tipo di impegno e di lavoro.

Torniamo agli anni della formazione. La militanza nelle organizzazioni cattoliche e il licenziamento del padre per antifascismo rafforzano la sua ostilità nei confronti del regime. In guerra serve nell’esercito come ufficiale medico nei Balcani, ma con l’armistizio dell’8 settembre del ‘43 entra nella resistenza, arruolandosi nell’ottava brigata Garibaldi a Ravenna. È coinvolto nella formazione della Democrazia Cristiana locale di cui diventa presto segretario a Ravenna. Nel 1944/45 partecipa alle riunioni del Comitato di Liberazione Nazionale per le Romagne e si impegna nell’attività giornalistica dirigendo il quotidiano “La Democrazia”. Terminata la guerra dedica tutto il suo impegno alla DC, ma è anche il momento di costruire la sua famiglia. Nel maggio del ‘45 sposa Maria Anna Busignani e da questo matrimonio nascono 6 figli, Livia, Maria Grazia Rita, Carlo Francesco Maria, Giovanni, Luca e Stefano. 

La mia mamma mi ha sempre raccontato che quando il babbo è tornato dalla resistenza, dalla guerra in qualche modo, lei ha sentito che la chiamava da fuori dalla porta di casa, appena arrivato sotto casa ha cominciato a chiamare “Anna Anna!”. E lei dice che quasi sviene dall’emozione e, infatti, io sono del ’46, quindi praticamente appena è stato possibile e loro si sono subito ritrovati, rimessi insieme immediatamente e poi hanno cominciato ad avere un figlio dietro l ‘altro. Una volta ho detto “ma mamma, possibile sei figli uno dietro l ‘altro”. Allora lei si è messa a ridere, ha detto “sai, il babbo, quando il più piccolo diventava un pochino grande, cominciava ad avere un anno, un anno e mezzo, cominciava a camminare, gli veniva già la nostalgia del bambino più piccolo”. Era colpa del babbo, che peraltro era proprio profondamente innamorato dei bambini piccoli, perché ha fatto anche il pediatra, quindi… 

Le esperienze politiche fanno di Zaccagnini una delle personalità più influenti della DC ravennate, tanto che nel ’46 viene eletto all’Assemblea Costituente e due anni più tardi alla Camera dei Deputati. Comincia così una lunga carriera parlamentare, prima come deputato e poi come senatore che finirà solo con la scomparsa nel novembre del 1989. Come parlamentare ricopre diversi incarichi nelle commissioni per la difesa e affari interni, agricoltura, industria e esteri. 

La spinta per essere impegnato dalla politica, io credo che sia stato quasi automatico per il tipo di partecipazione, di interesse sociale che lui ha sempre avuto, lo dava quasi per scontato, cioè non gli passava neanche il dubbio per cui ha cominciato a fare il parlamentare perché si sentiva spinto, gli si veniva richiesto, ma si fa notare anche perché proprio durante la resistenza e questo ancora qualcuno può testimoniarlo a Ravenna, aveva una collaborazione, un aiuto, una partecipazione di tanti, per esempio, si era molto legato e aveva molto collaborato con un altro importante resistente di Ravenna che si chiamava, e fece il deputato, onorevole Arrigo Boldrini, cosiddetto “Bülow”, era di provenienza di storia comunista, per dire quanto erano collaborative le relazioni che aveva.

L’impegno di Zaccagnini in seno al partito e nelle istituzioni, i continui spostamenti tra Roma e Emilia Romagna sottraggono tempo agli affetti. L’equilibrio tra politica e famiglia, tradizione pubblica e dimensione privata è complicato da costruire, soprattutto nei confronti dei figli. 

La famiglia viveva la politica come il lavoro del babbo, al venerdì arrivava a casa e ripartiva il lunedì. Era il suo lavoro, era un mestiere come se andasse a fare il ferroviere come faceva il nonno, non in città da noi ma fuori. Un pochino ne parlava, ma non è mai entrato nel merito, intendo nei primi anni, quando eravamo bambini per l’appunto. Però l’importanza di essere a Roma e di partecipare alla costruzione del nostro Paese in qualche modo ce lo trasmetteva.

Gli anni della ricostruzione del centrismo degasperiano segnano l’avvicinamento di Zaccagnini alla sinistra democristiana guidata da Giuseppe Dossetti, accanto a personalità come Moro, Fanfani e La Pira. In questi anni è dirigente della Coldiretti Romagnola, l’organizzazione cattolica che riunisce i piccoli proprietari e conduttori di terra, ma anche responsabile dell’ufficio “Problemi del Lavoro” della DC, incarico affidatogli direttamente da De Gasperi nel 53. Affermatosi come personalità di rango nazionale nella DC, nel ’59 Zaccagnini sostiene la linea del centro sinistra della segreteria Moro, ricopre diversi incarichi come sottosegretario e come ministro prima al dicastero del lavoro e poi a quello dei lavori pubblici. Ma quando Moro lascia la segreteria della DC per assumere la guida dei governi di centrosinistra dal ’63 al ’68, lo statista pugliese vuole che tutti i suoi più stretti collaboratori rinuncino agli incarichi di governo. Zaccagnini torna allora a dedicarsi interamente al lavoro nel partito e in Parlamento. Nel ’68 prende vita la protesta studentesca, alla quale aderiscono anche i figli più grandi di Zaccagnini, Livia e Carlo, che scelgono la parte politica avversa al padre.

Io non sono stata mai democristiana, mi viene da dire, sempre impegnata in qualche modo in politica, perché quello ce lo trasmetteva come una cosa importante. Però appunto molto diversi come idea, ma lui ha sempre rispettato in maniera assoluta. Chiacchieravamo, mi chiedeva cosa ne pensavo, e viceversa, e così anche con mio fratello. Quindi proprio mi scappa da ridere perché alla fine le discussioni le facevamo con mia mamma, perché mio padre invece rispettava tutte le nostre scelte. Parlo dalle nostre nel senso di mie e di mio fratello Carlo, perché eravamo i primi due, gli altri erano bambini più piccoli, parliamo del ’68, di quel periodo lì. Sia io che mio fratello Carlo avevamo fatto in qualche modo delle scelte, diciamo, politicamente diverse da quelle di mio padre. 

Proprio al figlio, Zaccagnini scrive una lettera molto interessante e anche tenera sul suo pensiero politico. “Ti dico con fermezza che di fronte al dilemma che mi sembra tu stia vivendo, riformismo o rivoluzione, sono francamente per la prima soluzione. Sono convinto che non vi sia altra rivoluzione vera da compiere, all’infuori di quella che si attua spingendo al massimo, in ogni fase storica, le possibilità concrete e reali di riforma. Credo che occorra custodire in se stessi intimamente un’anima rivoluzionaria, operando però nel concreto, con metodo, bisogna lavorare tenacemente, realisticamente, instancabilmente, senza sentirsi mai soddisfatti, guardando solo avanti, al domani, senza perdere di vista il presente”. 

Mio padre, le uniche cose che ci ha sempre detto, con quella tenerezza, oltre che con quella serietà che ha sempre avuto con noi, ma anche con tante altre persone perché era così il suo carattere, ci ha sempre sottolineato e si è sempre raccomandato che potesse lui essere certo che mantenevamo l’impegno e l’attenzione per i poveri, per il lavoro, per i giovani. Ci dovevamo comunque sempre impegnare e muovere per garantire questi principi. Per il resto potevamo fare qualunque cosa, ma non lo disturbavano. Si sarebbe disturbato moltissimo e ce lo ripeteva in maniera molto esplicita se si accorgeva che non avevamo più l’attenzione e l’impegno per queste cose. 

Tuttavia non è solo l’impegno politico a caratterizzare la quotidianità della famiglia Zaccagnini. Vi sono anche altre esperienze, ben più dolorose dovute alla prematura perdita di due figli. Eventi tragici, che Benigno Zaccagnini e la moglie affrontano con il sostegno della fede, fede cristiana vissuta con semplicità. I nostri genitori ne parlavano con una grande forza, un grande coraggio a noi, nel senso che hanno sempre cercato di capire quanto noi soffrivamo queste mancanze e farci capire invece quanto era importante continuare la vita, loro volevano trasmettere l’idea che dal paradiso ci vedevano. Sono stati tutti e due, padre e madre, molto molto molto religiosi, molto cattolici, molto credenti, pur avendo avuto e passato dei drammi come appunto per esempio la perdita dei figli. Sostenuto da Moro, nel luglio del ’75, Zaccagnini diventa segretario nazionale della DC, superando la competizione con Forlani e spostando la guida del partito su posizioni più avanzate. È una fase molto delicata per il Paese, ci sono le difficoltà economiche dovute alla prima crisi petrolifera, le intense mobilitazioni popolari, il terrorismo e lo stragismo. La stessa DC è in un momento momento difficile. La sconfitta nel referendum sul divorzio del ’74 ha minato le certezze, mentre nel Paese il consenso comunista continua a crescere fino alle elezioni regionali del giugno del ’75, quando il partito di Berlinguer quasi realizza il sorpasso ai danni dei democristiani. Zaccagnini deve affrontare la sfida del rilancio, cerca di rinnovare i quadri del partito e di sostenere la linea di Moro volta a un dialogo sempre più stretto con il PC e a un progressivo coinvolgimento dei comunisti nell’area della maggioranza, nel tentativo di stabilizzare il paese e il disegno che nella seconda metà del decennio prenderà corpo con i governi di solidarietà nazionale. Tutto viene travolto dal rapimento e dall’assassinio di Moro da parte delle Brigate Rosse. Assieme a larga parte della DC, Zaccagnini sposa, non senza difficoltà, la linea della fermezza, cioè il rifiuto di trattare con i brigatisti per non provocare la sconfitta morale e politica dello Stato Democratico.

“Trepidiamo insieme a tutti i nostri iscritti della democrazia cristiana che si sentono stretti e uniti attorno al loro Presidente. Ma questo attacco mira al di là delle persone che colpisce, mira veramente a rendere ingovernabile il nostro paese, mira veramente a minare le fondamenta di questa nostra libera convivenza democratica. Ecco perché questo che ho detto finora, si iscrive pare come primo punto per noi, all’ordine del giorno dell’impegno comune che il nostro partito esprime dell’invito fermissimo e certo che verrà ascoltato al governo perché compia tutto ciò che è possibile”.

Il conflitto tra lo stretto legame personale e politico con Moro e la ragione di Stato ha conseguenze drammatiche. Dalla prigionia, infatti, Moro gli indirizza tre lettere in cui lo colloca tra i principali responsabili della sua sorte, usando parole durissime. “Il mio sangue ricadrebbe su voi, sul partito, sul paese. Il tuo sì o il tuo no sono decisivi, ma sai pure che se mi togli alla mia famiglia l’hai voluto due volte. Questo peso non te lo scrollerai di dosso più. Io ripeto che non accetto l’iniqua ed ingrata sentenza della DC. Ripeto, non assolverò e non giustificherò nessuno”. Quando il 9 maggio del ‘78 viene ritrovato il cadavere di Aldo Moro, cade ogni speranza. Nel febbraio dell’80, una volta consumatasi definitivamente la parabola della solidarietà nazionale, Zaccagnini decide di dimettersi dalla segreteria.

Devastato per vari motivi, mi viene a dire, intanto per l’amicizia per cui non si è mai perdonato di non essere riuscito a salvare a Moro la vita, anche se era un convinto sostenitore del rifiuto di trattativa con i terroristi, non aveva dubbi su questo, però questa sensazione di non essere mai riuscito, pur avendo tentato quello che secondo lui era possibile tentare, di non essere riuscito a salvare e a recuperare la persona di Moro, è una cosa che secondo me non si è mai perdonato. L’ha sempre mantenuta e l’ha sempre avuta dentro da quando è successo. Una ferita viva, esattamente questo, che non l’ha mai più lasciato. Infatti, mi viene quasi da dire, non a caso è morto pochi anni dopo di infarto, perché il suo cuore era rimasto affaticato, appesantito e addolorato da questa situazione. Quest’ansia, questo dolore terribile che gli è rimasto dentro, aveva quasi cambiato, mi viene da dire, espressione in faccia perché noi fin da piccoli vedendolo avevamo bene chiara l’idea di quando faceva un sorriso come diventava, di quando era anche abbastanza spiritoso, insomma era radicalmente cambiato anche di carattere perché questa tristezza di fondo gli era rimasta in faccia, gli era rimasta addosso e era oltre che dolore al cuore e gli aveva fatto proprio cambiare anche il carattere diciamo.

Poco prima di morire, in un’intervista a Sergio Zavoli per la trasmissione “la notte della Repubblica”, Zaccagnini confessa il vuoto che la vicenda Moro gli ha lasciato e i rimorsi nei confronti della vedova dello statista. 

Il dolore si era acuito, all’indomani del ritrovamento, il dolore si era riacuito, perchè veniva confermato quello che invece era stato, cioè, una speranza che avevo sempre coltivato, che Moro potesse essere restituito, potesse essere dato alla sua famiglia prima di tutto e anche al partito. E poi era cambiato. Finché Moro era vivo avevo ancora questa certezza della sua presenza comunque, come lui avrebbe scelto secondo la sua linea, quindi questo vuoto, la signora Moro  ho cercato di incontrarla, non è stato, non è stato possibile, lo avrei detto di… se avevo sbagliato, di capirmi e di scusarmi di perdonarvi solo questo.

Come nelle vite di ciascuno di noi, esistono anche nella vita di Zaccagnini alcuni nodi che non si riescono a sciogliere. Di certo la vita e la politica non gli hanno risparmiato prove traumatiche e immensi dolori affrontati sempre con un spirito di responsabilità e grande abnegazione. Per gli amici e gli avversari Benigno Zaccagnini è stato sempre “l’onesto Zac”, un uomo che aveva nella mitezza la sua virtù principale, mossa dalla sua passione politica verso il cristianesimo sociale. 

Le  figlie  della  Repubblica  è  una  delle  iniziative  che  trovate  su  fondazione  degasperi.org,  grazie  al  contributo  di  Fondazione  Cariplo  e  al  sostegno  dell’Istituto Gentili, nata  da  un’idea  di  Martina  Bacigalupi  e  realizzata  da  WIP  Italia.  È  stato  raccontato  da  me,  Alessandro  Banfi,  ed  è  stato  scritto  e  diretto  da  Emmanuel  Exitu. Con  la  supervisione  storica  di  Antonio  Bonatesta e  la  collaborazione  degli amici giovani  della  Fondazione  De  Gasperi  nelle  persone  di  Martina  Bartocci, Iacopo  Bulgarini,  Miriana  Fazzi,  Federico  Andrea  Perinetti,  Gaia  Proietti,  Luca  Rosati,  Sound  Design  di  Valeria Cocuzza, registrazione  in  studio  di  Marco  Gandolfo,  per  una  produzione  WIP  Italia.


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