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6 Febbraio 2017

PETROLIO, DA MOTORE DELLE GUERRE A CARBURANTE DEL CAMBIAMENTO

Undicesima puntata della rubrica “Quindicina Internazionale. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Ettore Primo

Il crollo dei prezzi del petrolio iniziato nella seconda metà del 2014 ha creato uno shock in tutti le nazioni produttrici ed esportatrici di idrocarburi, in particolare i membri dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), colpendo anche le ricchissime monarchie del Consiglio di cooperazione del Golfo che per la prima volta hanno registrato disavanzi negativi di bilancio, imposto tagli alla spesa e introduzione di tasse e imposte fino a pochi anni fa impensabili. La bassa rendita del petrolio ha tuttavia innescato un mutamento che in alcuni casi si può definire “antropologico” all’interno della varie monarchie, note non solo per la loro enorme ricchezza e diseguaglianza sociale, ma anche per professare un Islam particolarmente rigido, di ispirazione wahabita. Alle misure di austerità si è affiancato un fiorire di piano di ristrutturazione economica e anche di riposizionamento geopolitico, con l’apertura dei mercati interni e un rilancio delle relazioni con la Russia. La paura di “morire di petrolio” potrebbe trasformare nei prossimi anni una risorsa, a ragion veduta considerata per decenni come la causa scatenante di gran parte delle guerre in Medio Oriente, come motore di un cambiamento epocale.    

La causa di questo cambiamento radicale è stato un evento fino ad un decennio fa impensabile: il crollo dei prezzi del greggio a causa di una situazione di iper-offerta sui mercati internazionali. Dopo aver toccato i massimi storici di 140 dollari al barile, nel 2014 ha inizio una nuova fase ribassista che ha portato il valore del greggio a toccare i minimi a 27 dollari, un minimo che non accadeva dal 2001. Dal crollo è nata una sorta di “mutazione antropologica” delle realtà produttrici che per mezzo secolo hanno trainato il mercato globale del petrolio. La vaporizzazione delle rendite petrolifere ha costretto tutti i paesi del Golfo ad intaccare fortemente le riserve in valuta estera e a vendere parte degli asset dei propri Fondi sovrani. La mossa è avvenuta sull’onda di un sentimento: la paura di “morire di petrolio”. La frase ricalca, in senso provocatorio, la visione di Zayed bin Sultan Al Nahyan, emiro di Abu Dhabi e storico fondatore degli Emirati arabi uniti, il quale considerava la dipendenza dagli idrocarburi una sorta di “maledizione” per il futuro del paese. I deficit di bilancio registrati dai paesi del Golfo tra il 2015 e il 2016, che in Arabia Saudita hanno sfiorato i 100 miliardi di dollari, hanno costretto la totalità dei paesi del Golfo e una buona parte dei membri Opec a ripensare in modo radicale le proprie economie, partendo da quella energetica per giungere fino ad un ripensamento delle politiche di occupazione per ridurre l’alta disoccupazione giovanile. 

Tra le novità riguardanti l’energia due risultano di particolare importanza: la prima è il lento abbandono del petrolio come fonte di energia per soddisfare la domanda interna a favore di un mix composto da gas, rinnovabili e nucleare, la seconda riguarda invece la ristrutturazione e la futura quotazione in borsa del colosso petrolifero saudita Aramco, considerata la più grande azienda del mondo con asset stimati pari a 2 mila miliardi di dollari. Il tema delle rinnovabili, divenuto una sorta di mantra ideologico in occidente, è per i paesi del Golfo una reale necessità che ha poco a che fare con l’ambiente, ma potrebbe indirettamente aiutare lo sviluppo del settore anche al di fuori del Golfo.

I due paesi leader di questa importante riforma sono gli Emirati arabi uniti e l’Arabia Saudita. Il primo è già all’avanguardia nel settore con importanti progetti avviati dalla società Masdar (letteralmente “fonte”), sussidiaria del fondo di investimento dell’emirato di Abdu Dhabi Mubadala. La creazione di Masdar ha condotto all’avvio di importanti progetti industriali legati alle rinnovabili, in particolare “Masdar City”, la prima città al mondo a zero emissioni che sorgerà nei pressi dell’aeroporto internazionale di Abu Dhabi. La confederazione di monarchie, ancorate alla solida cultura beduina del fondatore Zayed bin Sultan Al Nahyan e al suo rapporto con le risorse del deserto (rinunciò alle amate battute di caccia per preservare gli animali selvatici che vivono nel deserto arabo), ha inoltre annunciato di recente un piano per diversificare le risorse energetiche con scadenza al 2050, dando più spazio a rinnovabili, gas e nucleare e avviare un cambiamento “qualitativo” nella cultura dei consumi della popolazione per ridurre gli sprechi e aumentare l’efficienza nel settore. 

Al pari degli Emirati arabi uniti anche l’Arabia Saudita ha annunciato un piano di sviluppo delle energie rinnovabili con investimenti tra i 30 e 50 miliardi di dollari fino al 2023 e l’obiettivo ambizioso di produrre fino a 10 gigawatt di potenza da energie rinnovabili.

Il discorso sulle rinnovabili è una presa di coscienza della necessità di diversificare le economie altamente dipendenti dal petrolio, creando sviluppo industriale, investimenti e competenze tecniche. Il mix energetico su cui si stanno avviando i paesi del Golfo mira anche a liberare “barili di petrolio” ad oggi destinati a soddisfare la domanda interna ed immetterli sul mercato. La serie di riforme anche sul piano fiscale, con l’introduzione dell’Iva tra i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo nel 2018, e nelle infrastrutture fa emergere anche un’altra consapevolezza: il prezzo del petrolio difficilmente raggiungerà nuovamente i picchi di 100 dollari al barile. Alla luce di questo dato, il mutamento “antropologico” riguarda anche un diverso rapporto politico tra i “campioni del Golfo” – Arabia Saudita, Qatar ed Emirati arabi uniti – e la Russia.   

L’accordo firmato lo scorso 10 dicembre 2016 a Vienna tra i paesi Opec e 11 produttori al di fuori del Cartello, tra cui la Russia, ha un valore anzitutto politico oltre che tecnico. In base all’accordo, il primo nel settore petrolifero dal 2001 e per tanto considerato storico da molti osservatori, la produzione Opec dovrebbe calare nel complesso di circa 1,2 milioni di barili al giorno mentre quella dei paesi al di fuori del Cartello di circa 600 mila barili, per un totale di 1,8 milioni di barili al giorno. La riduzione è già iniziata a gennaio con l’entrata in vigore dell’accordo che durerà per sei mesi e potrebbe essere prorogato di altri sei mesi. Da sola l’Arabia Saudita si è impegnata a tagliare di 500 mila barili di petrolio al giorno la sua produzione, mentre la Russia di almeno 300 mila barili. L’obiettivo di fondo è eliminare, o quanto meno limitare, la volatilità del mercato petrolifero mantenendo i prezzi stabili per arginare la concorrenza del petrolio non convenzionale (shale oil – petrolio da scisti bituminosi) negli Stati Uniti e in Canada, il cui boom nel 2014 è alla base della situazione di iperofferta che ha causato il crollo dei prezzi del petrolio. 

La dinamicità delle piccole aziende produttrici nordamericane e la loro capacità di adattarsi alle situazioni del mercato, interrompendo e accelerando la produzione a seconda dei prezzi, sta indirettamente mutando anche la strategia dei colossi statali che caratterizzano il settore energetico dei paesi del Golfo e della Russia. Come già sottolineato, il 2018 è l’anno della possibile quotazione in borsa del 5 per cento di Saudi Aramco, da cui l’Arabia Saudita potrebbe ricavare entrate alla prima immissione sul mercato fino a 100 miliardi di dollari, vitali per i suoi programmi di sviluppo, in particolare “Vision 2030”. Ai primi di febbraio la società ha concesso per la prima volta nella sua storia una verifica indipendente delle riserve petrolifere, ad oggi solo stimate, che potrebbe riservare sorprese dato che secondo alcune voci si aggirerebbero intorno ai 265 miliardi di barili di petrolio.

Un altro dato da non sottovalutare, che mostra l’intreccio delle alleanze strategiche avvenute negli ultimi mesi e che potrebbero avere effetti importanti anche sulle future scelte della nuova amministrazione statunitense targata Donald Trump, è la parziale privatizzazione del colosso petrolifero russo Rosneft. La mossa studiata dall’Ad Igor Sechin, il grande tessitore delle trame energetiche russe, conferma il rilancio delle relazioni economiche tra Mosca e i paesi del Golfo con l’acquisto da parte dell’Autorità per gli investimenti del Qatar (Qia) e dell’anglo-svizzera Glencore del 19,5 per cento della società. 

* Esperto di Geopolitica energetica

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio Campati – Tempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa
  5. | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi
  6. | Paolo Alli – La Russia di Putin alla luce delle elezioni georgiane
  7. | Gabriele Natalizia – Una “nuova” Guerra Fredda?
  8. | Tomi Huhtanen – Populist influence and how to fight it
  9. | Hasan Abu Nimah – Should the Arab world follow the European unification model?
  10. | Antonio Campati – Sessant’anni dopo, è ora di ripensare l’Europa

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