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21 Gennaio 2018

LA CRISI (DEL SETTANTESIMO ANNO) DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

Quando i Padri costituenti hanno pesato, parola per parola, periodo per periodo, il testo della Costituzione, la immaginavano come la Legge fondamentale della Repubblica, come la (sola) Fonte della convivenza civile degli italiani, come l’unico pilastro della vita istituzionale del Paese, ma anche delle libertà e dei diritti dei cittadini (Calamandrei).
E’ vero che, agli artt. 10 e 11, era prevista un’apertura a fonti del diritto sovranazionali, ma è anche vero che quelle previsioni restavano confinate nell’ambito di un fisiologico riconoscimento degli effetti giuridici del diritto internazionale pattizio e alle limitazioni imposte dalla necessità di assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni (Conforti).
Sennonchè, è accaduto, nel tempo, che la Costituzione ha progressivamente perduto quel carattere di “sacralità” (Ciampi) di cui sono connotate le Carte fondamentali di uno Stato e ha ceduto la sua “forza” originaria, per un verso, alle spinte di fonti sovranazionali e, per un altro, alle esigenze di un decisionismo governativo che non tollera più il rispetto delle procedure costituzionali.
La prevalenza delle fonti sovranazionali ha messo in crisi (perlopiù) la tenuta dei principi enunciati nella prima parte della Costituzione; le pressioni della c.d. fast democracy hanno stressato, piegandoli, i processi decisionali (fondati sulla centralità del Parlamento) descritti nella seconda parte della Carta.
Il difficile, ma mirabile ed equilibrato, compromesso raggiunto tra le diverse componenti culturali e politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente nella definizione dei principi fondamentali, dei diritti e delle libertà dei cittadini (Elia), che ha retto e governato per decenni, secondo uno schema ordinato e naturale, le relazioni tra lo Stato, i corpi intermedi e i cittadini, è entrato in crisi con l’affermazione del diritto sovranazionale come preminente o, comunque, equivalente, rispetto alle enunciazioni costituzionali.
Prima il diritto dell’Unione Europea e, poi, i principi consacrati nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) hanno, infatti, acquisito, in esito a un processo lungo e tormentato (governato, ma, allo stesso tempo, anche subìto, dalla Corte Costituzionale italiana), una “forza”, rispetto, non solo alla legislazione nazionale ordinaria, ma anche alla stessa Costituzione, che impone, ormai, di considerare quelle fonti prevalenti rispetto alla stessa Legge fondamentale della Repubblica.
O, comunque, di ritenerle, se non prevalenti in via automatica, oggetto di un giudizio di bilanciamento, affidato alla Corte Costituzionale, con i valori e i principi cristallizzati nella Carta (nello scrutinio di compatibilità con la stessa CEDU e con i Trattati europei delle disposizioni legislative nazionali sospettate di confliggere con essi).
I valori consacrati dai costituenti come fondativi della convivenza repubblicana hanno ormai perduto quel carattere di intangibilità e risultano sempre più destinati a soccombere a fronte dell’esigenza di assicurare l’attuazione dei principi europei (per come cristallizzati nei Trattati) o dei diritti della CEDU (che, è bene ricordarlo, non sempre coincidono con quelli costituzionali, soprattutto nella vincolante interpretazione che ne offrono le Corti legittimate a chiarire il senso e la portata dei rispettivi sistemi).
Come si vede, dunque, la Costituzione ha perso quel rango di Legge suprema, alla quale (sola) devono obbedire le leggi ordinarie, per acquisire quello, meno nobile, di legge cedevole, rispetto al diritto dei Trattati dell’UE, o di parametro equivalente e concorrente con le previsioni della CEDU nella verifica della costituzionalità delle norme ordinarie.
Per quanto mitigata dai principi del “margine di apprezzamento” (per come definito dalla Corte di Strasburgo) e dalla teoria dei “controlimiti” (Corte Cost., sent. n.238 del 2014), che escludono una preminenza assoluta e indefettibile dei Trattati europei e della CEDU su confliggenti valori costituzionali, la dialettica tra le predette fonti sovranazionali e la Carta si risolve, in ogni caso, in un indebolimento di quest’ultima e in una sua (inevitabile) degradazione dal rango di Legge suprema dell’ordinamento.
Né potrebbe validamente obiettarsi l’astratta inconfigurabilità di un conflitto tra le fonti confrontate: la diversa conformazione e declinazione, in esse, di alcuni principi e diritti fondamentali non solo non esclude profili di antinomia, ma, al contrario, li enfatizza, nella misura in cui proprio il carattere fondativo e generale di essi esige un loro pieno e incondizionato rispetto.
E’ vero che si è creato un “rapporto di benefica circolarità” (Caravita) tra i diversi sistemi di tutela (nazionale e sovranazionale) dei diritti fondamentali, ma è anche vero che l’idea originaria dei costituenti di disegnare un’architettura, anche valoriale, fondante, al quale avrebbe dovuto conformarsi, in via esclusiva, l’organizzazione e l’ordinamento della Repubblica è, comunque, naufragata sugli scogli del diritto sovranazionale che si è progressivamente affermato come prevalente, equiparato o concorrente, rispetto alla Costituzione.
Senza avventurarci in un giudizio politico sugli effetti di questo progressivo indebolimento della Carta fondamentale, ci limitiamo a registrare le conseguenze del processo giuridico, ma anche culturale, descritto, non senza mancare di rilevare che le nuove fonti non paiono sorrette dalla medesima legittimazione politica che ha ispirato l’Assemblea Costituente.
Ma la Costituzione è entrata in crisi anche per una diversa e ulteriore ragione.
Il fondamento parlamentare dei processi decisionali (che, secondo Kelsen, connota in maniera essenziale il carattere democratico di un regime), il pluralismo democratico, il ruolo dei corpi intermedi, il principio di rappresentatività che erano stati concepiti in un’ottica di amministrazione plurale e condivisa della Res Publica hanno progressivamente ceduto alle esigenze di un decisionismo rapido, imposto dai tempi stringenti della recente crisi economica, e alle nuove modalità di comunicazione implicate dalla diffusione dei new media (Urbinati).
Si tratta di fenomeni recenti che hanno, a loro volta, prodotto gli effetti della c.d. democrazia immediata e, in ultima istanza, della disintermediazione (Stringa), nell’attuazione di un processo di divaricazione tra la legalità procedurale e quella sostanziale, tra la Costituzione formale e quella materiale (secondo l’originaria formulazione di quest’ultima nozione da parte di Mortati).
Si assiste, in altri termini, a una divergenza che non intacca direttamente l’ossequio formale ai canoni procedurali descritti nella Carta, ma che incide profondamente, alterandola, sull’idea stessa di Repubblica che aveva ispirato i costituenti e sul funzionamento delle istituzioni, da essi immaginato secondo un modello di “democrazia mediata” (Duverger).
Si rivela, in particolare, tradito lo spirito di una democrazia parlamentare, plurale, partecipata, aperta al contributo delle società di mezzo (tra il cittadino e lo Stato), secondo l’archetipo della “democrazia consensuale” descritto da Lijphart.
L’utilizzo sviato e abnorme del decreto legge, l’abuso delle questioni di fiducia, l’interpretazione (sovente) monocratica dei poteri del Presidente del Consiglio, lo spostamento del baricentro decisionale dal Parlamento al Governo, la prevalenza della finanza sulla politica, la compressione, se non lo svuotamento, del ruolo dei corpi intermedi nei processi decisionali e, in definitiva, il sacrifico del pluralismo hanno, infatti, snaturato, nell’ambito di un “processo di presidenzializzazione” (Calise, Fabbrini), la concezione originaria, evincibile dall’assetto istituzionale disegnato nella Costituzione, della decisione politica come consacrazione di una democrazia autenticamente rappresentativa e fedele al principio maggioritario.
Sarebbe miope, tuttavia, ignorare che le torsioni appena segnalate sono il prodotto di un’esigenza di efficientamento e di semplificazione dei processi decisionali e, probabilmente, la conseguenza di una certa obsolescenza del loro disegno costituzionale, ma sarebbe altrettanto ingenuo trascurare di considerare come le citate deviazioni decisioniste finiscano, secondo la dinamica propria dell’eterogenesi dei fini, per compromettere il rapporto tra il cittadino e lo Stato, che non può che restare interpretato anche dagli organismi intermedi, e, in definitiva, per comprimere l’indefettibile esigenza di assicurare una gestione plurale e partecipata della Res Publica.
Le istanze, per lo più generate dalla crisi economica, di una democrazia decidente sono state, peraltro, aggravate dagli effetti più nefasti dell’uso dei social media da parte dei leader politici, che hanno pensato, così, di prescindere dalla mediazione della rappresentanza e di attingere, direttamente dagli utenti dei network, il consenso e la legittimazione per la loro azione politica, nell’ambito di una inedita forma di democrazia, definita, infatti, “ibrida” (Diamanti), in quanto snaturata dalla partecipazione diretta dei governati, via web, al dibattito pubblico.
Così come l’utopia di una democrazia diretta, e, cioè, senza rappresentanza, interpretata come “salvifica” da alcuni movimenti politici, rischia di conculcare ulteriormente lo “spazio di mediazione” (Campati) e quei processi di ascolto e condivisione, che, se rettamente intesi, permettono l’adozione di decisioni meditate, consapevoli, condivise e, perciò, più efficaci e socialmente sostenibili.
Ma è possibile prescindere dai meccanismi della rappresentanza e dal concorso plurale dei corpi intermedi nella formazione della decisione politica? O non si rischia, optando per un’esegesi diretta e sganciata dalla rappresentanza politica della volontà popolare, di aggravare la crisi della democrazia e di tradire lo spirito voluto dai costituenti di una partecipazione larga ai processi di public choice?
Sembra chiaro che il combinato disposto delle forzature connesse a un decisionismo spinto, all’accentramento nell’Esecutivo della decisione politica e alla disintermediazione nell’interpretazione e nella ricerca del bene comune producono l’effetto di una deviazione dallo schema di una democrazia parlamentare e plurale, che, per quanto “tarda” (Ornaghi), resta democrazia, consacrato nella Carta fondativa.
Così come appare difficilmente contestabile che le interpretazioni più azzardate di una democrazia decidente finiscono per conculcare le esigenze, pure cristallizzate nella Costituzione (o, comunque, implicite in essa), della partecipazione degli enti intermedi, sia pubblici, sia privati (nelle varie declinazioni dell’associazionismo), nell’amministrazione della Repubblica.
L’idea di contenere o annullare le spinte dell’anti-politica con l’immediatezza della relazione verticale tra governanti e governati e con l’uso (soprattutto, se non solo) mediatico della comunicazione politica si rivela, peraltro, illusoria, se non pericolosa.
Il concorso del cedimento della Costituzione alle pressanti esigenze di assicurare il rispetto delle fonti sovranazionali e del piegamento delle procedure istituzionali alle istanze della fast democracy hanno, in definitiva, certificato la crisi della Carta, sia per aver perso il carattere di Legge suprema dell’ordinamento, sia per essere concretamente disattesa, nella parte dedicata alle procedure di formazione della volontà politica.
Forse è, allora, arrivato il momento di ascoltare l’ammonimento di Luigi Sturzo, quando osservava che: “La Costituzione è il fondamento della Repubblica democratica. Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal governo e dal parlamento, se è manomessa dai partiti, se non entra nella coscienza nazionale, anche attraverso l’insegnamento e l’educazione scolastica e post-scolastica, verrà a mancare il terreno sul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà”.
Il grande pensatore e sacerdote siciliano aveva intuito molto lucidamente, con una riflessione ancora valida, che la Costituzione resta il baluardo della nostra libera convivenza civile e che ogni cedimento della sua architettura costituisce il più grave pericolo per la tenuta delle istituzioni, ma, ancor prima, per la dignità e le libertà della persona (sul cui primario rispetto si fonda la costruzione democratica consacrata nella Carta del 1948).
Non a caso Pietro Calamandrei ha definito la Costituzione “presbite”, proprio per la sua capacità di guardare lontano e di conservare la sua validità nel tempo, in ragione del carattere universale dei principi da essa consacrati.
Si tratta, allora, sia di ripristinare, sia di aggiornare, ma mai di rinnegare o di disperdere, la valenza fondativa e costituiva dell’architettura costituzionale.
Per un verso, occorre, allora, garantire il rispetto per i valori che i Padri costituenti hanno identificato come fondanti la convivenza repubblicana.
Spetterà, in questo senso, alla Corte Costituzionale, quale custode della Carta, assicurare, nel giudizio di bilanciamento con i principi sanciti dalla CEDU e dal Trattato di Lisbona, un’adeguata ed effettiva protezione dei diritti e delle libertà scolpiti nella prima parte della Costituzione (di guisa che non vengano traditi o snaturati).
Un uso accorto e saggio del “margine di apprezzamento” e dei “controlimiti” servirà, in particolare, ad arginare derive normative incoerenti con i valori costituzionali e, quindi, ad assicurare un’adeguata protezione delle regole e dei principi che i costituenti hanno concepito come indefettibili e costitutivi dell’ordinamento repubblicano.
Per un altro verso, e nonostante il fallimento dei diversi tentativi di riforma costituzionale già esperiti, si deve concepire una revisione condivisa della seconda parte della Carta, che assicuri un più efficace e agile funzionamento delle istituzioni e dei processi decisionali e una semplificazione dei meccanismi di rappresentanza, ma che, allo stesso tempo, non rinunci al pluralismo e al ruolo sussidiario dei corpi intermedi e delle autonomie.
Spetterà, inoltre, alle società intermedie, ivi compresi i partiti politici, infrangere lo schema di autoreferenzialità burocratica nel quale paiono imprigionati e recuperare una legittimazione rappresentativa e una nuova credibilità, anche mediante l’abbandono di stantìe liturgie concertative e un uso intelligente delle nuove tecnologie.
In una società complessa, come quella contemporanea, appare, infatti, impensabile l’assenza di uno spazio di mediazione e di interpretazione dei bisogni delle comunità di base, che non può che restare affidato, in via naturale, proprio ai corpi intermedi, secondo la concezione della necessità della c.d. “infrademocrazia” (de Tocqueville, Sartori).
La salvezza della democrazia non può essere consegnata a malintese e fallaci concezioni di una gestione solo diretta, immediata e telematica del rapporto tra governanti e governati o a leadership costruite al di fuori del circuito della rappresentanza democratica.
La convivenza libera e civile di un popolo è un valore troppo alto per essere svenduto ai tempi e agli interessi della finanza o confinato nell’agorà virtuale, irresponsabile e distorta dei social media e della rete.

di CARLO DEODATO


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