De Gasperi e la Liberazione
Su proposta del Presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, Umberto II di Savoia, principe e luogotenente del Regno d’Italia, il 22 aprile 1946 emanò un decreto legislativo luogotenenziale con Disposizioni in materia di ricorrenze festive, che all’articolo 1 stabiliva la festività del 25 aprile per quell’anno con la seguente dicitura:
«A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale.»
Decreto legislativo luogotenenziale 22 aprile 1946, n. 185, art. 1
I festeggiamenti della Liberazione si tennero anche nel 1947 e 1948 grazie al Decreto del Capo Provvisorio dello Stato (“A celebrazione del secondo anniversario della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1947 è dichiarato festa nazionale”, decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 12 aprile 1947, n. 208) e del Presidente della Repubblica (“A celebrazione del terzo anniversario della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1948 è dichiarato festa nazionale”, decreto legislativo 20 aprile 1948, n. 322)
La ricorrenza venne istituzionalizzata, sempre su impulso del Presidente De Gasperi, dall’art. 2 della Legge 27 maggio 1949, n. 260 – Disposizioni in materia di ricorrenze festive.
Con tutte la buona volontà di oppormi al sovversivismo e dovendo concedere anche che le masse qui sono meno mature di quello che credevo e quindi più bisognose di freni e redini, mi son tuttavia persuaso che l’attuale regime è una sventura e se non si abbatte presto, ci porterà ad una reazione violenta.
De Gasperi
Lettera di De Gasperi a Sergio Paronetto, 10 ottobre 1943
Caro Sergio,
ho letto la sua amichevole lettera, il suo profondo ed equilibrato articolo, il nostro programma di emergenza colla presentazione del conto ai liberatori. Mi riservo di rileggere e di ripensare ancora.
Ma oggi mi affretto a ringraziarla prima di tutto della sua preziosa disposizione a partecipare al comune lavoro della D.C. Le confesso che non avevo capite le sue rapide dichiarazioni assenteiste. Senza dubbio l’immediato domani esige lavoro ricostruttivo, ma l’antifascismo a cui dobbiamo ancora tenere non è quello impastato di rappresaglie, di bandi e di esclusioni, ma è il criterio che ci serve a identificare, misurare e giudicare gli stessi antifascisti e non fascisti: la mentalità antilibertaria della dittatura borghese-repubblicana, la passione rivoluzionaria, militare-monarchica o proletario-comunista, la passione rivoluzionaria dei comitati di salute pubblica, l’ambizione giacobina d’improvvisare riforme, la suggestione del nuovo, dell’ardito a qualunque costo. Lei sa che queste sono mie preoccupazioni vecchie; ma forse non sa che si sono radicate ancora più profondamente nell’animo mio, in questi ultimi mesi di cospirazione (passi la presuntuosa parola) antifascista. Sventuratamente mi persuado sempre più che il fascismo è una mentalità quasi congenita alla generazione più giovane, una mentalità del resto atavica, nella quale riaffiorano molti fermenti del Risorgimento. Noi siamo un po’ nella situazione di Cesare Balbo e (un po’ più sinceri) di Gioberti in confronto degli insurrezionisti alla Mazzini; ma questa volta abbiamo il vantaggio di patrocinare la libertà in contrasto coll’esempio più esiziale dell’antilibertà demagogica: il fascismo.
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Ed ecco perché, in tale senso, l’antifascismo è una pregiudiziale ricostruttiva. Lei capisce, quest’antifascismo non riguarda la tessera, ma l’animus, i metodi della vita pubblica. Del resto, ove trova Lei, nel suo veramente magnifico articolo-programma di Studium l’antitesi che le perme il chiarimento e l’esame di coscienza, e l’esposizione dei propositi futuri se non nell’antifascismo? Che cosa si sarebbe dovuto fare, come e perché si è peccato, quale e quanta la nostra parte di colpa? Poiché nella dialettica umana il modo polemico suole essere il più efficace per ritrovare se stessi, ecco che l’antifascismo dovrà offrire a noi ancora per un pezzo un vasto campo di ricerche e orientamenti.
Aggiungo che politicamente ne abbiamo bisogno anche per difendere la relativa bontà della democrazia e far tacere i cercatori del bene assoluto.
Credo che siamo d’accordo, vero? Anche se in tal maniera l’antifascismo sia un freno per la tecnocrazia? Lo permetterà di dire a me che, uscito dalla biblioteca, nel breve spazio di tempo che m’era consentito di farlo, sono venuto da voi e da altri in tutta umiltà per imparare ed aggiornarmi, con una sete del concreto e dell’elemento tecnico che non s’è lasciata vincere nemmeno dalla relatività delle conclusioni che i tecnici stessi da tali elementi ricavavano.
Plaudo toto corde alle linee direttive di Studium (e al coraggio di pubblicarle ora). Questo articolo e l’articolo e il gesto di Andreotti mi piacciono immensamente: riabilitano l’A.C. da tanti misrevoli adattamenti. Ecco il vantaggio della rivista, del settimanale di pensiero. Questa è la trincea, donde si possono puntare le artiglierie grosse, senza partecipare alla mischia quotidiana. I quotidiani no, per la contradizion che nol consente, e non comprendo come molti uomini saggi di A.C. questo non vogliano ammettere.
Dunque sono pienamente d’accordo col proposito ricostruittivo e con quello di non slittare: questo secondo è il più difficile e sarebbe davvero un immenso progresso se non si ripetessero gli errori del ’19, quando si fece la guerra al P.P. in nome dell’“anima cristiana”!
Il “breve appunto” è un titolo modesto per un programma di emergenza: contributo prezioso. Potreste elaborarlo con motivazione per ciascun punto e omettendo naturalmente le punte ironiche introduttive? Mi pare utilissimo averlo in pronto, all’americana.
La mia curiosità è intensa di leggere le vostre conclusioni economiche, a integrazione di Malines. Tecnica economica e teologia: i belgi si sono sempre lamentati di non avere un contributo tecnico sufficiente. I vostri teologi sono più fortunati. I politici in genere hanno sempre rappresentato l’elemento più liberale. P. 224, primo capoverso, di Studium mi tranquillizza. Quando mi sorprendo con questa costante preoccupazione, sorrido di me, uomo, e dell’esperienza che feci. E pensare ch’ero il più ardito interventista della compagnia (senza la demagogia migliolina), ammiratore del Müller, uno scolaro, attraverso gli epigoni, del Vogelsang.
Dunque, concludiamo per il momento: partecipo di lontano coll’augurio ai vs. lavori e ne spero molto, per i cattolici e per i politici. Se ci sarà da imparare (e come non sarà?) mi avrete scolaro entusiasta, collo sguardo all’avvenire.
Dunque al comune lavoro per la nostra Patria, se Dio vorrà! Buona ventura!
Saluti cordiali in casa
De Gasperi
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Discorso di De Gasperi al I° Congresso Nazionale della DC Roma, 24-28 aprile 1946
Amici! Molti di voi, parecchi di voi, ricorderanno l’ultimo Congresso del Partito Popolare nel 1925: quella sala angusta e tetra in cui ci eravamo ricoverati per prendere le ultime risoluzioni di fronte alla dittatura ormai incontrastata. Risoluzioni, se vi ricordate, che furono semplici, ma franche e decisive. Non c’era possibilità di agire e di reagire; c’era una sola possibilità: quella di affermare la propria indipendenza morale e di salvaguardare la libertà della propria coscienza. L’ultima mia parola come Segretario del Partito fu questa: aspettate l’ora della giustizia, non disperate della libertà. Poi venne la distruzione del Partito, degli archivi, di ogni memoria scritta o stampata perfino dei verbali; insomma di tutta l’attrezzatura del Partito ma soprattutto la persecuzione dei capi: persecuzione che portò all’esilio, all’arresto, al confino ed in prigione. L’ultima roccaforte fu l’Aventino. Poi il silenzio ed una triste lotta per l’esistenza personale e della propria famiglia. Quale era il nostro delitto? Avevamo fatto delle congiure?
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Avevamo forse attaccato l’autorità dello Stato? No! La nostra colpa che ci si rimproverava sempre era quella di avere nel Congresso di Torino(2), senza attaccare la coalizione governativa, proclamato la difesa assoluta della libertà. Nel periodo che seguì, la nostra attività all’interno doveva essere molto limitata: cercare d’influire sugli organi di stampa amici o nei circoli cattolici perché questi nella loro massa almeno non si lasciassero attrarre in equivoci: poi discussioni in piccoli gruppi per aggiornare il nostro vecchio programma, sempre sperando che i conflitti al di fuori venissero a rendere possibile un’azione all’interno. Sperammo nel ’35; la nostra speranza riprese nel 1940 e allora cominciò l’attività più specificamente cospirativa e lo sforzo di aggiornare il nostro programma nel contatto con i giovani.
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Discorso di De Gasperi ai comandanti partigiani, 28 ottobre 1950
Se questo Congresso fosse anche solo un atto commemorativo e celebrativo, il dovere del governo nella persona del suo capo sarebbe di inchinarsi dinanzi ai morti e associarsi alla celebrazione del sacrificio dei vivi; ma questo non è un Congresso che guarda semplicemente al passato. È rivolto, come abbiamo sentito dagli oratori precedenti che hanno esposto il programma, innanzitutto al presente e all’opera dell’avvenire. Ed ecco che il mio sostanziale dovere come capo del governo è di ringraziare gli oratori e voi che vi siete associati alle loro conclusioni per il rinnovamento dell’impegno che avete preso verso la patria italiana, verso la patria e verso il regime libero delle istituzioni democratiche.
La patria in questo momento ha bisogno di solidarietà, ha bisogno di una nuova resistenza: la resistenza contro le forze disgregatrici; ha bisogno di ardimento operoso contro l’antilibertà. Ha detto bene il comandante Mauri: «voi non vi siete battuti semplicemente per la cacciata dei tedeschi; voi vi siete battuti per creare un rinnovamento profondo nel paese», quello – da lui definito – il secondo Risorgimento: «la libera comunità di italiani in una libera comunità delle nazioni». Con questo ha formulato il suo, il vostro, il nostro ideale. La guerra vista dalla montagna, fa nascere e sorgere idee e prospettive secolari alle quali nella valle della vita quotidiana non siamo atti a guardare e così avviene in tutte le crisi dei grandi avvenimenti storici.
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Ci sono dei momenti in cui tutto quello che è preoccupazione quotidiana e quanto sa di ordinaria amministrazione, si mette da parte e si vedono in prospettiva le grandi linee, i grandi princìpi, le grandi mete. Ed ecco perché anche voi, ritirati sulle montagne per la difesa, avete avuto il concetto del riscatto politico e morale del vostro paese. La vostra parola comune è libertà. Una parola magica che vuol dire molte cose, che sottintende molte cose; libertà prima nel senso di indipendenza del paese contro qualsiasi dominazione ed aggressione; libertà poi in regime politico, avvento delle forze popolari al governo; libertà nella giustizia sociale, cioè ridistribuzione della proprietà, del reddito, della ricchezza; libertà consapevole dei valori spirituali eterni e religiosi. Per taluni, pochi, che venivano dal mondo della cultura fra i partigiani, la libertà sarà stata anche una dottrina filosofica, ma per tutti divenne e fu la conclusione pratica di un’esperienza storica. Una conclusione definitiva dopo venti anni di dittatura e soprattutto innanzi agli orrori della guerra civile, una conclusione pratica che ora si rinnova nel vostro impegno e ci sta di fronte come necessità della nostra opera. Allora, era più facile intendersi su questa parola in una sfera molto ampia; l’anti-libertà si chiamava Hitler e si traduceva un po’ adattando il significato della parola il Deutschland über alles. Oggi c’è un «bolscevismo über alles».
C’è un concetto generale di una dominazione che non conosce frontiere, anzi che spacca le frontiere; la dominazione di un regime, non parlo della dottrina, parlo di un regime, un regime il quale non conosce libertà e non conosce istituzioni rappresentative di carattere democratico. Veramente queste cose le sapevamo; veramente le abbiamo imparate un po’ alla volta dal 1945 in qua, però il caso della Corea è stato così impressionante che sarebbe grave errore non trarne ammaestramento. Ma vi siete accorti che con un automatismo rapidissimo, quanto è rapida la comunicazione telefonica o radiotelefonica nel mondo, anche l’Italia si è trovata spaccata in due parti, come se il parallelo 38° fosse passato metaforicamente a dividerla nel medesimo momento.
Questa scissione automatica e istintiva ci ha spaventati tutti, anche coloro che sapevano che doveva finire così. Ma, dunque, ci siamo detti: la Russia, questo Stato che rappresenta il bolscevismo, aggredisca o non aggredisca, abbia torto o ragione; la Russia dunque deve essere obbedita, e le Patrie esistono solo subordinatamente a questo ideale supremo del bolscevismo. Dunque la Costituzione italiana che dice sacra la difesa della patria vale in quanto si accetti sempre ed in qualunque caso la subordinazione alla Russia. Da ciò i telegrammi a Stalin e la speranza fanatica di una «liberazione». Liberazione da che? Liberazione dall’Italia democratica che il popolo ha voluto e ciò per imporci un regime dittatoriale, uno Stato-partito contro cui voi partigiani insorgeste.
Ecco, amici volontari, che voi seguendo oggi un precetto della vostra coscienza, vi trovate anche nella logica degli storici sviluppi del vostro movimento. È la vostra conquista che siete chiamati a difendere. Voi avete contribuito in forma eminente a ricostruire questa Italia, a darle una dignità. Oggi abbiamo bisogno di solidarietà nazionale e voi potete contribuirvi, alimentando nella vita quotidiana la fede nel patriottismo sincero, vigilando sui pericoli, scuotendo gli incerti, incoraggiando i pavidi, sollevando la speranza e la fede nell’avvenire d’Italia. Non si tratta di difendere un partito, ma i princìpi vitali della democrazia. Domani ci può essere un’altra maggioranza diversamente costituita, ma il principio non deve essere perduto: istituzioni libere e possibilità di trasmissione diretta della sovranità del popolo; questa è la libertà politica della volontà del popolo. E non cadiamo nel vecchio errore. Dir male delle istituzioni è facilissimo perché sono istituzioni umane, composte e impastate da passioni umane e da debolezze umane; dir male del Parlamento è la cosa più facile del mondo. Dire male di un congresso, discutere, denigrando o diminuendo il valore positivo delle cose, è quasi una tendenza tradizionale da noi e non solo da noi. Evidentemente è una debolezza umana generale ma è un difetto che in certi momenti può costituire degenerazione della democrazia e dobbiamo combatterlo. Ma per i difetti e per l’eventuale degenerazione non possiamo tornare dalla Camera all’anti-Camera.
Non dobbiamo tornare alla libertà oppressa, al regime dittatoriale dove, al più, è lecito mugugnare. Non lasciamoci ingannare dalle pur legittime critiche. Senza dubbio speriamo che i nostri figli si trovino innanzi ad un sistema rappresentativo più ideale, più sicuro, più degno; sarà la via del progresso. Ma perché questo sogno si avveri, non dobbiamo rinnegare il punto di partenza.
Perché io insisto su questa parola Parlamento? Perché anche molti dei nostri amici, anche buoni patrioti, credono che sia una cosa secondaria, e forse nel 192122 anche molti di noi lo abbiamo creduto, nonostante che avessimo dinanzi la storia della esperienza politica. Ma il risultato positivo della esperienza fascista deve essere questo: mai più tornare indietro nello sviluppo parlamentare; correggerlo, rinnovarlo, tutto quello che volete, ma non abbandonare il sistema, perché abbandonato il Parlamento, le altre libertà non sono più sostenibili. Questo lo ripeto qui in mezzo a uomini avvezzi a ricorrere alla difesa con la spada, che hanno una certa concezione militare della vita e delle grandi virtù, che fanno parte di questa concezione militare.
È necessario però aggiungere a queste doti anche l’accettazione volontaria dello spirito democratico, che vuol dire veramente sottoporsi all’esperienza parlamentare perché fino ad ora si è dimostrato non esservi altra spada per migliorare le leggi della convivenza civile. Voi che rappresentate lo spirito di sacrificio, di disciplina, soprattutto di disciplina, potreste esigere anche dagli uomini rappresentativi della nazione che dimostrino un senso maggiore di disciplina. Io lo predico da sempre, lo predico tutti i giorni, ne sento la necessità, ma in Italia a questo ci si arriva lentamente perché tutti gli italiani sono oratori, tutti hanno la fantasia facile; tutte attitudini le quali portano fatalmente alla discussione lunga e molteplice.
Allora voi militari, voi che vedete la necessità della disciplina e dell’azione, perdonate un po’ questo vizio nazionale, e cercate di correggerlo; e noi parlamentari, noi uomini politici, riconosciamo che la nazione è perduta se accanto a questa libertà di discussione non c’è il senso della disciplina, lo spirito di sacrificio di cui questi uomini che mi circondano sono stati i campioni. Io vi ringrazio dunque di questo vostro impegno, di questa promessa di collaborazione. Fra le proposte dell’amico Mattei mettete in prima linea l’intervento attivo, accanto alle forze dell’ordine, in caso di emergenza e di pericolo. Avete offerto al paese ragione di incoraggiamento; bisognava che voi lo diceste. Lo sapevamo che l’avreste fatto, ma era necessario dirlo perché c’è in giro tanta gente pavida, tanta gente intimidita. Ma al di là di questo compito straordinario di emergenza, del compito di mobilitazione di tutte le forze, avete indicato il vostro compito della vita quotidiana, della vita ricostruttiva. Anche qui abbiamo bisogno che le parole abusate di «patriottismo», di «nazione», di «elevazione popolare», prendano un senso più adeguato alla situazione, prendano un senso più concreto e più giusto. In questo voi potete aiutarci.
Mauri ne ha parlato specificatamente; così avete pensato ai tempi del combattimento: questo era il vostro pensiero di allora, questo è il programma di oggi. Abbiamo bisogno che voi eleviate in Italia la fede del patriottismo; solleviate questo paese disfatto dalla sconfitta e dalla guerra civile, solleviate la fede nella speranza e nell’avvenire d’Italia. È come se doveste portare lo spirito del volontarismo dalla montagna nella valle, nella valle della ricostruzione; nella valle dove l’aria è meno pura e il cammino più imbarazzato dai molti viandanti in varie direzioni; occorre portiate questo spirito del vostro sacrificio, questo spirito concreto di ricostruzione, questo spirito di subordinazione delle persone, all’ideale umano di una patria di tutti; bisogna che lo portiate nella vita quotidiana e ci aiutiate a far capire a questo popolo che non ci sono sempre due estremi: o da una parte la subordinazione ad un ideale internazionale, o dall’altra l’accensione in un nazionalismo che conduce al disastro. No. C’è la via larga della tradizione italiana.
La situazione internazionale anche oggi e anche domani dovremo in parte subirla e vi prego di tenerlo sempre in mente. Quando incomincerete a criticare la attività di un governo o di un rappresentante, ricordatevi che le situazioni non si risolvono con le parole. L’Italia è un paese moralmente altissimo; la nostra forza sta nella nostra civiltà, nella nostra energia morale. I rapporti di forza materiale non ci sono spesso favorevoli. Allora bisogna girare gli ostacoli e adattarsi. Ma arriva un momento in cui si impone il dovere morale di difendere il carattere di una nazione, la dignità di un popolo. Ed allora, diamo contenuto a questa parola di patriottismo, a questa parola di nazione, diamo un contenuto che si inquadri nei nostri valori storici e sopratutto questa parola applichiamola al popolo. Non è più il momento di decidere delle questioni in piccola cerchia o rappresentanza di classe. È il popolo italiano l’attore principale, non dimentichiamolo. E un’altra cosa vi vorrei raccomandare: voi venite dall’esercito; la maggior parte di voi sono stati educati nell’esercito; vi sono stati degli errori, delle disgrazie, delle sconfitte.
Forse, più che altro, degli errori. Ma oggi la nazione si riarma. Bisogna che lo facciamo per la nostra difesa. Lo facciamo tenendo conto delle necessità popolari e delle riforme sociali. L’esercito deve essere attrezzato. Non possiamo esporci al rimprovero di aver parlato di milioni e milioni di baionette e poi lasciare inermi i nostri soldati. La democrazia parla meno di milioni di baionette, ma cerca di attrezzare modernamente i soldati che devono difenderci. Ma sopratutto c’è bisogno di curare e di elevare lo spirito dell’esercito ed ecco dove faccio appello a voi. Aiutateci, aiutateci, aiutateci, perché alla attrezzatura moderna si unisca l’antico spirito da cui voi siete venuti: difendete l’esercito dalle insidie. Ne ha parlato anche l’amico Mattei. L’esercito è veramente insidiato. Sono certo, come tutti mi assicurano, che l’infezione non è entrata in cavità ma il tentativo c’è, e ripeto, è sistematico. So che voi amate l’esercito; aiutateci a difenderlo poiché è il baluardo della patria e della libertà. Un’altra cosa aiutateci a fare: credo che anche voi, nella vostra esperienza di combattenti e di volontari, dopo una guerra spaventosa finita così male, dopo la guerra civile a cui avete dovuto prendere parte e dopo aver assistito all’amara esperienza dei trattati di pace e dei rapporti fra i vecchi e i nuovi alleati, credo che anche voi siate arrivati a quella conclusione che io ho spesso ripetuto: vogliamo mettere l’Italia in piedi innanzi a tutte le nazioni. Una volta data una parola dobbiamo mantenerla fino alla fine.
Quindi, non mi state a parlare di neutralismo, di meditazione sulle possibili sortite. Lentamente raschiando un po’ di pregiudizi che hanno avuto naturalmente un’origine da qualche fatto storico, bisogna che arriviamo ad imprimere nella mente dei nostri nemici e dei nostri amici, che siamo un popolo leale, che se facciamo un patto lo manteniamo e che anche noi siamo disposti alla nostra parte di sacrificio. Voi inoltre che avete vissuto gli orrori della guerra civile, aiutateci a superare lo spirito funesto delle discordie. Certo, vi può contribuire la misericordia che tanto si invoca. Si devono lasciare cadere i risentimenti e l’odio; si deve perdonare, come qualcuno di voi ha detto. Ma la sincera pacificazione non è possibile, se non si smette il tentativo di avvelenare ancora la fantasia della gioventù italiana, con l’esaltazione di un disastroso passato e col far riapparire lo spettro della dittatura di partito, contro la quale voi siete insorti. Siamo pronti a tirare un frego su tutto il passato ad una condizione: che di qui innanzi non ci sia che una patria sola, un regime solo riconosciuto, una libertà sola. L’Italia ha bisogno di tutti i suoi figli in questo momento, di tutti i suoi figli in buona fede. Così ho finito, amici miei.
Con un pensiero vorrei concludere: la nazione è anche una storia, una tradizione, un complesso di sentimenti, un complesso di idee, che continuamente rifluiscono, di generazione in generazione; ma la patria vivente in cui dobbiamo lavorare e che dobbiamo difendere, è il popolo italiano. E quando diciamo di amare la patria, bisogna voler dire: lavorare, continuare nello sforzo pazientemente, fino a che al popolo italiano sia data la possibilità di una giustizia sociale che oggi non ha, che oggi non abbiamo la possibilità di assicurare perché ancora ci sono quelli che assorbono una quota troppo grande del reddito nazionale. Non è che noi invidiamo posizioni e agi: è che noi abbiamo il dovere di una perequazione più giusta e più sana. Anche qui, amico Mauri, io credo che saremo d’accordo, perché in un suo libretto ho trovato ricordata una canzone dei partigiani del Piemonte in cui si precisavano gli scopi della guerra di liberazione. Le strofe erano diverse, ma una mi ha colpito specialmente: perché combattere? E la canzone partigiana rispondeva: «perché questa antica parola Popolo suoni divina – al mio compagno signore – e a me stirpe contadina».
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De Gasperi tra i partigiani delle Langhe 17/10/1951
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