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16 Maggio 2020

I sequestri di persona. Verso quale modello di security risk management in aree di crisi? Parla Saccone

di Emanuele Lorenzetti

Il tema della sicurezza privata nelle aziende e per le ONG che operano in aree di crisi è sempre più rilevante nel dibattito pubblico e di settore. Come prevenire i sequestri di persona ad opera di gruppi criminali o terroristici? Alla luce del recente caso Silvia Romano, la Fondazione De Gasperi ha voluto compiere una riflessione più generale sull’importanza del security risk management nelle aree di crisi insieme ad Umberto Saccone, presidente di IFI Advisory, già direttore Controspionaggio del SISMI (ex Servizio segreto militare italiano pre-riforma L. 124/2007, ora AISE) e capo della security ENI.

Dott. Saccone, negli ultimi periodi assistiamo ad un crescente fenomeno di rapimento dei volontari e di personale aziendale occidentali che operano nei teatri di crisi. Perché?

Dal 2001 ad oggi sono stati sequestrati nel mondo 65 italiani, 19 di questi erano operatori umanitari. Negli ultimi anni il 52,5% dei rapimenti, è avvenuto ai danni di cooperanti delle Ong (34,5%) e dei giornalisti (18%). Si tratta di lavori, quelli delle ONG, che per loro stessa natura portano gli operatori in zone di conflitto o di sconvolgimenti umanitari; il contatto diretto con la popolazione, la volontà di penetrare tutte le realtà del Paese e la mancanza di adeguati sistemi di sicurezza ne fanno obiettivi altamente remunerativi sia sotto il profilo economico sia sotto quello dell’organizzazione del rapimento. E’ questa la ragione per la quale il 7 Settembre 2004 in Iraq, a Baghdad, un gruppo armato ha fatto irruzione negli uffici della ONG “Un ponte per…” sequestrando Simona Pari e Simona Torretta. Il 14 agosto 2011, nella regione del Darfur, in Sudan, è stata la volta del cooperante di Emergency Francesco Azzarà. Nella notte tra il 22 e il 23 ottobre 2011, nel campo profughi saharawi di Hassi Raduni, in Algeria, è stata rapita Rossella Urru impegnata con la ONG CISP (Comitato Internazionale per lo sviluppo dei popoli). Il 9 gennaio 2012 Giovanni Lo Porto, trentottenne palermitano, è stato sequestrato in Pakistan dove lavorava come capo progetto per l’Ong tedesca “Welt Hunger Hilfe” (Aiuto alla fame nel mondo) e, il 13 marzo 2013, in Siria, è stato rapito il cooperante italo-svizzero Federico Motka che si trovava nel Paese per conto della ONG tedesca “Welthungerhilfe”. Greta Ramelli, ventenne di Gavirate (Varese) e Vanessa Marzullo, ventunenne di Brembate (Bergamo) sono state invece rapite rapite il 31 luglio 2014 ad Aleppo, nel nord della Siria dove operavano per conto della ONG “Progetto Horryaty”. Per ultimo, ma non ultimo, il rapimento di Silvia Romano che operava in Kenia per la ONG Africa Milele.

La normativa internazionale, UE e nazionale vieta allo Stato la possibilità di recuperare gli ostaggi mediante pagamento del riscatto al gruppo criminale o terroristico. Tale pratica, tuttavia, è ancora perseguita da alcuni governi europei, compresa l’Italia. Qual è il motivo, quali le conseguenze negative e come i governi dovrebbero muoversi?

Il diritto internazionale esclude ogni forma di finanziamento del terrorismo. La norma trova il proprio fondamento nella Convenzione di New York del 1979 e in particolare nelle risoluzioni n. 2161 e 2170 del 2014 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che vietano agli Stati membri di finanziare organizzazioni terroristiche, qualsiasi sia la causa della corresponsione, incluso il pagamento del riscatto. A prescindere dalle norme internazionali l’ordinamento italiano punisce il favoreggiamento reale. L’art. 379 c.p. prevede che chiunque aiuta taluno ad assicurare il prodotto o il profitto o il prezzo di un reato (in questo caso pagando un riscatto), è punito con la reclusione fino a cinque anni. Maria Callimachi, giornalista del New York Times ha in più occasioni affermato che i governi europei hanno pagato 125 milioni di dollari in riscatti ai rapitori negli ultimi sei anni’’. Ma restando ai fatti e non alle ricostruzioni più o meno attendibili bisogna prendere atto che il pagamento di un riscatto è escluso dal nostro ordinamento e considerato che i governi che si sono da sempre succeduti hanno sempre smentito il pagamento non abbiamo strumenti per confutare.

L’AISE che tipo di supporto dovrebbe fornire?

L’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE) ha il compito di ricercare ed elaborare tutte le informazioni utili alla difesa dell’indipendenza, dell’integrità e della sicurezza della Repubblica dalle minacce provenienti dall’estero.  Di fatto l’AISE fa il proprio lavoro operando a tutela degli interessi strategici e salvaguardando il capitale umano patrimonio collettivo dell’intera nazione. Il legislatore ha da sempre inteso far riferimento alla politica informativa e di sicurezza come lo strumento idoneo alla tutela dell’interesse e della difesa dello stato democratico e delle istituzioni poste a suo fondamento dalla Costituzione. E’ lo strumento di cui lo Stato si serve per raccogliere, custodire e diffondere ai vertici decisionali le informazioni rilevanti per la tutela della sicurezza delle Istituzioni, dei cittadini e delle imprese. E’ in tale cornice che l’intelligence opera mettendo a disposizione il proprio network di relazioni, potendo contare su una rete di agenti capillare e professionale, con una profondità operativa unica, tra le forze di sicurezza dello stato, potendo contare anche delle cosiddette garanzie funzionali, ossia delle guarentigie che l’ordinamento ha inteso assicurare agli appartenenti ai servizi di informazione per il caso in cui, nel corso di apposite operazioni, vengano poste in essere condotte punite dalla legge come reato.

Cosa significa oggi per le industrie, come l’italiana Eni, e per le associazioni di volontariato investire nel security management e, se c’è, verso quale modello di gestione?

Secondo gli articoli 32, 35 e 41 della Costituzione italiana la sicurezza, libertà e dignità umana prevalgono sull’iniziativa economica privata (dovere di protezione o duty of care). Tale principio è dettagliato dall’articolo 2087 del codice civile, che impone all’imprenditore di adottare le misure “che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica” del lavoratore e dall’art. 28 del D.lgs. 81/2008 secondo cui il datore di lavoro, nel Documento di Valutazione dei Rischi (DVR), deve considerare tutti i rischi “compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari”. Dunque, il datore di lavoro è tenuto a garantire al proprio personale tutte le misure di sicurezza, sia con riferimento a quegli eventi di tipo accidentale quali gli infortuni e le malattie professionali, sia rispetto ad eventi esterni all’attività lavorativa quali ad esempio un’aggressione, un attentato ovvero un rapimento (i cosiddetti rischi di security). Tali adempimenti sono a carico del datore di lavoro, quest’ultimo inteso come il responsabile dell’organizzazione dell’attività dell’ente in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa, anche all’interno di ONLUS o di altri enti privi di scopo di lucro.


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