
Marina Fanfani racconta il padre Amintore
“Amintore Fanfani è diventato Amintore Fanfani anche grazie a sua madre”, dice la figlia Marina nella puntata che chiude la seconda stagione di “Le Figlie della Repubblica”. Giovane professore della Cattolica di padre Agostino Gemelli, entra in politica su invito di De Gasperi che ne intuisce il potenziale. Marina ricorda divertita un aneddoto curioso del primo incontro tra il padre Amintore e De Gasperi.
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Le figlie della Repubblica è un progetto della Fondazione De Gasperi realizzato in collaborazione con il Corriere della sera, con il contributo di Fondazione Cariplo e il sostegno di Poste Italiane.
Amintore Fanfani (Pieve Santo Stefano, 6 febbraio 1908 – Roma, 20 novembre 1999) – uomo politico, più volte segretario della Democrazia cristiana e ministro, presidente del Consiglio dei ministri e presidente del Senato.
Nato nel 1908 nella provincia aretina, Fanfani crebbe in un contesto familiare piccolo borghese, di fede cattolica e di ideali affini al Partito popolare italiano (Ppi), di cui il padre Giuseppe era esponente locale. Membro dell’Azione cattolica sin dagli studi liceali e, in seguito, della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci), si iscrisse all’Università cattolica del sacro cuore, a Milano, dove si laureò in Scienze economiche e sociali nel 1930, avviandosi verso un brillante percorso accademico ed intellettuale.
Chiamato alle armi dopo l’armistizio, fu costretto a lasciare l’Italia, rifugiandosi in Svizzera dal settembre 1943 al luglio 1945. Fu in questo contesto che Fanfani maturò definitivamente il distacco dal fascismo e l’avvicinamento alla Democrazia cristiana, sollecitato da Giuseppe Dossetti. I contatti e le collaborazioni con la Dc si intensificano progressivamente e Fanfani entrò così a far parte degli organi direttivi del partito.
Nel giugno 1946 fu eletto all’Assemblea costituente, dove ricoprì un ruolo di notevole peso: al suo contributo, insieme a quello di Dossetti, Moro e Togliatti, si attribuisce l’elaborazione del primo articolo della Costituzione, nel suo concetto di “Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Dapprima esponente della corrente dossettiana, Fanfani si avvicinò poi nei primi anni Cinquanta ad Alcide De Gasperi. Frattanto, erano iniziate le prime esperienze ministeriali nei governi De Gasperi e Pella, come titolare dei dicasteri del Lavoro, dell’Agricoltura e, infine, dell’Interno.
Con la fine del centrismo degasperiano, Fanfani era ormai ritenuto l’esponente più autorevole ad assumere la guida del partito. Nel 1954 fu eletto segretario nazionale, carica che mantenne fino al gennaio 1959. Erano quelli anni di intenso sviluppo economico e di profonde trasformazioni sociali, gli anni del “boom economico”, durante i quali si pose assieme a Moro come interlocutore del Psi di Pietro Nenni, preparando la stagione del centro-sinistra.
Tra il 1958 e il 1963 fu per tre volte presidente del Consiglio dei ministri, salvo due brevi interruzioni dovute ai governi Segni e Tambroni. Il suo quarto governo, varato nel 1962, godette dell’appoggio esterno dei socialisti, dando vita alla fase di più intense riforme del centro-sinistra, culminate con la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la riforma della scuola media.
Lasciata la presidenza del Consiglio a Moro, Fanfani si qualificò sul versante della politica internazionale divenendo ministro degli Esteri e, nel 1965, presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite: ad oggi, l’unico italiano ad aver ricoperto questa carica.
Le mobilitazioni collettive e l’emergere della conflittualità sociale nel paese lo spinsero si posizioni più moderate. Tornato alla segreteria della Dc nel 1973, assunse attitudini più conservatrici, che trovarono emblematica espressione nella posizione antidivorzista in occasione del referendum abrogativo della legge sul divorzio, il cui esito segnò la sua grave sconfitta. Scosso dal rapimento di Moro, si mostrò disponibile alla trattativa, senza, tuttavia, scontrarsi con il cosiddetto “fronte della fermezza”.
La sua carriera politica si concluse con due elezioni alla Presidenza del Senato e con la guida di due brevi governi di transizione, che corrisposero al suo quinto e sesto mandato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Ancora ministro con Goria e De Mita, Fanfani assistette all’inizio degli anni Novanta alla crisi finale della Dc, che sancì assieme all’epilogo della Prima Repubblica anche la fine del suo percorso politico.
Rosa Giolitti racconta il padre Antonio
Rosa Giolitti racconta il padre Antonio nelle sue molte sfaccettature. Dalla scelta di andare controcorrente, aderendo al Partito Comunista pur appartenendo alla famiglia italiana liberale per eccellenza fino all’impegno nel cuore delle istituzioni europee.
Una vita da protagonista della sinistra italiana del secondo dopoguerra, vissuta con il coraggio delle proprie idee. Un coraggio che pagò a caro prezzo e che gli altri – tra cui il presidente emerito Napolitano – gli riconobbero solo a distanza di decenni.
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Antonio Giolitti (Roma, 12 febbraio 1915 – Roma, 8 febbraio 2010) – uomo politico, ministro, commissario europeo
Proveniente da un contesto familiare borghese di profonda cultura liberale e attitudini risorgimentali – il nonno era Giovanni Giolitti – che gli consentirà di formarsi fuori dagli schemi della propaganda e dalla retorica del fascismo, Giolitti nutrirà fin da giovanissimo la passione per lo studio e la filosofia del diritto. Si laureò in Diritto civile presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma nel 1937 avviando i primi contatti con gli ambienti clandestini del comunismo italiano, inteso quale unica forza in grado di opporsi concretamente a fascismo e nazismo.
Nei primi anni di guerra, lavorò presso il Ministero dell’Educazione nazionale fino all’arresto, nell’ottobre 1942, per attività eversiva. Rilasciato, riprese la sua attività intellettuale, approfondendo lo studio del pensiero marxista e dando avvio alla militanza nel Partito comunista italiano. A seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943, prese attivamente parte alla Resistenza collaborando alla costituzione della brigata partigiana “Garibaldi” e rimanendo ferito in azioni di guerriglia. Con la liberazione, fu eletto all’Assemblea costituente nel giugno 1946 e deputato nell’aprile 1948 per il Pci.
Nel secondo dopoguerra si consolidò anche la collaborazione con la casa editrice Einaudi, per cui seguì la pubblicazione dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, aprendosi alla letteratura economica americana del New deal e alla teoria economica di John Maynard Keynes, cosa che contribuirà ad allargare i suoi orizzonti. Se infatti nel 1948 si era opposto al piano Marshall, seguendo la linea del partito, due anni più tardi seguì da vicino la preparazione del piano del lavoro elaborato dalla Cgil di Giuseppe Di Vittorio, i cui contenuti furono duramente criticati da Togliatti.
Dopo la denuncia da parte di Chruščëv dei crimini di Stalin e in polemica con la repressione sovietica della rivoluzione ungherese, avvenuta nell’autunno del 1956, Giolitti sancì infine la sua rottura con il Pci e l’approdo al Partito Socialista Italiano (Psi). L’avvio de centro-sinistra lo vide così tra le personalità socialiste impegnate nel primo governo Moro (1963-64), promotore della programmazione economica e delle cosiddette “riforme di struttura” – ad esempio la nazionalizzazione dell’energia elettrica – insieme al socialista Riccardo Lombardi e al repubblicano Ugo La Malfa. Questa prima esperienza di governo si concluse rapidamente quando il declino della crescita economica e i timori della Dc per gli eccessi riformistici socialisti condussero alla sua sconfitta e all’allontanamento dall’esecutivo.
Nella prima metà degli anni Settanta, Giolitti tornò a ricoprire la carica di ministro del Bilancio (1970-72 e 1973-74) in una fase di grandi difficoltà per il paese, caratterizzata dall’instabilità economica e dal conflitto sociale, che lo condusse a un aspro confronto con il governatore della Banca d’Italia Guido Carli ma soprattutto con lo stesso La Malfa per la scelta delle politiche necessarie a stabilizzare il paese.
Il percorso politico di Giolitti nella seconda metà degli anni Settanta è caratterizzato dalla battaglia, all’interno del Psi, a favore della cosiddetta “alternativa di sinistra”, in opposizione alla dinamica consociativa avviata con la stagione della solidarietà nazionale guidata da Moro e da Berlinguer.
Nel maggio del 1977 il governo italiano lo indicò come membro della Commissione europea, dove fino al 1984 ricoprì l’incarico di commissario alla politica regionale. A Bruxelles, Giolitti prese progressivamente le distanze dalla scena politica italiana e dal Psi, manifestando la posizione sempre più scopertamente contraria all’azione di Craxi, criticandone la politica di alleanza irreversibile con la Dc.
Alle elezioni politiche del giugno 1987 Giolitti fu eletto Senatore come indipendente nelle liste del PCI, battendosi per un rinnovamento della sinistra e un suo approdo ‘socialdemocratico’. Vi sono anche dibattiti e scritti di cui il contributo più compiuto si trova in Lettere a Marta, pubblicate a Bologna dalla casa editrice il Mulino nel 1992.
Rosa Russo Jervolino racconta la madre Maria
Rosa Russo Jervolino è una delle poche donne a poter vantare di essere figlia non di uno, ma ben due costituenti. L’amore per la politica e l’impegno per gli altri li apprende in particolare dalla madre, Maria De Unterrichter di cui dipinge un ritratto affettuoso e prezioso, al centro della puntata di questa puntata.
La voglia di contribuire alla rinascita italiana partendo dalla scuola fu al centro dell’azione di governo della madre Maria, tra le prime deputate ad essere elette e la seconda a diventare Sottosegretaria di Stato.
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JERVOLINO, Angelo Raffaele (Napoli, 2 settembre 1890 – Roma, 10 marzo 1985) – Uomo politico italiano. Docente e avvocato concistoriale, militò a lungo nell’Azione cattolica e nella Federazione unitaria cattolica italiana (Fuci). Divenne allievo del cardinale Giovanni Battista Montini – futuro papa Paolo VI – e venne insignito della prima medaglia d’oro dell’Università Cattolica per una tesi sul tema della libertà di insegnamento. Fermo antifascista e membro del Comitato di liberazione nazionale (Cln), nel 1919 aderì all’appello di Luigi Sturzo per la nascita del Partito popolare italiano, nonostante il moltiplicarsi delle intimidazioni da parte delle milizie fasciste.
Con l’avvento del fascismo al potere e l’instaurazione della dittatura, Jervolino mantenne un atteggiamento di cautela e prudenza, coerentemente con le posizioni assunte dalle alte sfere ecclesiastiche. Si impegnò nella Gioventù italiana di Azione cattolica, prima presidente diocesano a Napoli, quindi come consigliere nazionale e, infine, come presidente generale dell’organizzazione, nel periodo dal 1928 al 1934 che vide la gestazione e la sottoscrizione dei Patti Lateranensi. Nel corso del suo mandato, tentò di difendere la libertà e l’autonomia della Giac dagli attacchi, spesso anche espliciti, dei fascisti.
Con la caduta del fascismo, fu tra i fondatori del partito della Democrazia cristiana e fece parte della Consulta Nazionale. Nel giugno 1946, fu eletto all’Assemblea costituente con larghi suffragi; entrò a farvi parte insieme alla moglie Maria De Unterrichter, sposata nel 1930 e anch’ella eletta nelle liste della Dc.
Nelle legislature successive fu eletto senatore e dedicò molto del suo lavoro all’impegno meridionalista, come relatore della legge istitutiva della Cassa per il Mezzogiorno. Sommò altri incarichi: Ministro delle Poste e Telecomunicazioni (1948-50), Ministro della Marina mercantile (1959-1963), Ministro della Sanità (1963), Ministro dei Trasporti (1963-1968).
Gli anni Sessanta rappresentarono la fase finale del suo percorso politico, segnata da grandi trasformazioni economico-sociali e dall’esperienza del centro-sinistra di Fanfani e Moro (1960-1968). Nel dicembre 1964 gli è stata conferita la Medaglia d’oro al merito della sanità pubblica dall’allora Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Già nominato Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana, nel 1968 decise di non presentare la propria candidatura alle elezioni politiche e dedicarsi, da quel in poi, ai suoi studi.
Luisa La Malfa racconta il padre Ugo
“Sacrifici oggi per dare ai nostri figli un futuro migliore”. Questa frase sintetizza bene l’impegno politico e di governo di Ugo La Malfa. Nato in una famiglia con pochi mezzi, seppe farsi strada fino ai vertici della Repubblica, facendo del merito, del rigore e del riscatto del Mezzogiorno il cuore della sua battaglia.
Luisa La Malfa racconta nella puntata di oggi del padre Ugo, padre costituente, più volte ministro e leader del Partito Repubblicano.
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Le Figlie della Repubblica è un progetto della Fondazione De Gasperi realizzato in collaborazione con il Corriere della sera, con il contributo di Fondazione Cariplo e il sostegno di Poste Italiane.
Ugo La Malfa (Palermo, 16 maggio 1903 – Roma, 26 marzo 1979) – segretario del Partito repubblicano italiano, più volte ministro, vicepresidente del Consiglio nei governi Moro IV e Andreotti V.
La formazione e le prime esperienze politiche
Nato nel 1903 a Palermo da una famiglia della piccola borghesia siciliana, La Malfa frequentò le Università di Palermo e Venezia sviluppando negli anni giovanili un vivo interesse per il liberalismo di Croce e per la tradizione democratico-repubblicana risalente al Partito d’Azione di Mazzini.
Nel corso della sua carriera universitaria entrò in contatto con gli ambienti antifascisti avvicinandosi alle posizioni di Giovanni Amendola e maturando la convinzione che fosse necessario un partito di ceti medi, di forte ispirazione democratica, al fine di stabilizzare in senso progressivo il paese.
Con l’avvento della dittatura, le sue capacità furono notate da Giovanni Gentile che lo volle alla redazione dell’Enciclopedia Italiana. Qui incontrò Orsola Corrado, siciliana, addetta allo schedario, che sposò nel luglio 1934 e da cui avrebbe avuto due figli, Luisa e Giorgio ed ebbe occasione di mantenere alcuni contatti con giovani intellettuali antifascisti e riflettere sulle conseguenze della crisi del 1929. Fu nel corso degli anni Trenta che La Malfa ampliò le basi del suo pensiero economico, interessandosi ai principi dell’“economia programmata”, al superamento dell’ortodossia liberista e alle politiche keynesiane del New Deal rooseveltiano, posizioni che approfondì una volta divenuto direttore dell’ufficio studi della Banca Commerciale Italiana nel 1938.
Percependo l’approssimarsi della crisi del regime, nel 1942 partecipò alla fondazione del Partito d’Azione (PdA), prendendo parte alla Resistenza. Nel 1946, dopo le prime deludenti prove elettorali e in rotta con le componenti socialiste, La Malfa abbandonerà il PdA per confluire nel Partito repubblicano italiano (Pri).
Gli anni del secondo dopoguerra videro accrescersi il prestigio di La Malfa come personalità politica e di governo. Dopo le prime esperienze ministeriali nel governo Parri come titolare dei Trasporti (1945), fu eletto alla Costituente, rappresentò l’Italia al Fondo Monetario Internazionale (1947) e assunse l’incarico di ministro senza portafoglio con il compito di procedere alla riorganizzazione dell’Iri (1950). Divenuto ministro del Commercio con l’estero (1951-53), si fece promotore della liberalizzazione degli scambi commerciali con i partner europei, sopprimendo i dazi alle importazioni e ponendo le basi per il successivo “boom economico”.
Dalla programmazione economica alla crisi degli anni Settanta
La Malfa tornò al governo con il centro-sinistra, come ministro del Bilancio e della Programmazione economica dei governi Fanfani. In queste vesti, presentò nel 1962 la cosiddetta “Nota aggiuntiva”, un vero e proprio manifesto della cultura keynesiana e roosveltiana della programmazione economica, che si affiancava alla versione fornite dai socialisti. Con la programmazione economica, i governi di centro-sinistra si candidavano a governare l’impetuosa modernizzazione del paese di quegli anni, nel tentativo di ridurre gli squilibri sociali, i divari territoriali e le grandi differenze tra consumi privati in crescita (che denotavano l’arricchimento di alcuni strati della popolazione a scapito di altri) e consumi collettivi scarsi (diritto alla casa, trasporti pubblici, scuola, sanità).
La fine del boom economico e i timori della Dc spensero però gli accenti più ambiziosi del riformismo del centro-sinistra. La seconda metà degli anni Sessanta vide La Malfa allontanarsi nuovamente dal governo e assumere la guida della segreteria del Pri, stretto tra governi di centro-sinistra ormai incapaci di attuare un’adeguata strategia riformatrice e l’esercizio di un ruolo di critica privo di sostanziali approdi politici.
L’ultima stagione politica di La Malfa si aprì nel 1973, con la ricostruzione di una coalizione di centro-sinistra a seguito del fallimento dell’esperimento neocentrista dell’esecutivo Andreotti-Malagodi (Dc-Pli). Fu al governo come ministro del Tesoro e come vicepresidente del Consiglio dei ministri, prima con Rumor (1973-74) poi con Moro (1974-76), fino dunque alle soglie della stagione della “solidarietà nazionale”.
Di fronte all’emergere del terrorismo, La Malfa divenne uno degli esponenti più impegnati nella linea di difesa dello Stato. Nel marzo 1978, il rapimento di Moro – figura con cui aveva stretto una solida collaborazione di governo, soprattutto nella prima metà del decennio – non mutò questo atteggiamento, tanto che La Malfa si schierò tra i più decisi fautori della linea della “fermezza”, del rifiuto cioè di ogni trattativa coi brigatisti.
Dopo le dimissioni di Andreotti, nel febbraio 1979, La Malfa fu incaricato da Sandro Pertini di formare un nuovo governo: era la prima volta dal 1947 che un tale incarico era assegnato a un politico non democristiano. Dopo alcuni giorni, di fronte all’emergere di difficoltà, La Malfa rinunziò all’incarico, ma venne nominato vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio nel V governo Andreotti (marzo 1979), suo ultimo incarico prima della morte.
Anna Maria Cossiga racconta il padre Francesco
Dalla conflittualità delle piazze degli anni Settanta alla Presidenza della Repubblica, passando dalla tragedia di Moro. Cossiga è stata una figura centrale della Prima Repubblica, in un’altalena di grandi responsabilità e di momenti di riserbo. Questo podcast ci racconta, attraverso il generoso ricordo della figlia Anna Maria, il percorso politico di una personalità di grande acume e intelligenza, speso tra la militanza democristiana, la drammaticità di alcuni passaggi della vita nazionale e le aspirazioni a un profondo rinnovamento del sistema dei partiti dopo la fine del sistema bipolare.
Francesco Cossiga (Sassari, 26 luglio 1928 – Roma, 17 agosto 2010). Uomo politico e giurista italiano, deputato e senatore della Democrazia cristiana, ministro, presidente del Consiglio e della Repubblica.
Dalla formazione alla solidarietà nazionale
Proveniente da una famiglia di estrazione medio-borghese, repubblicana e antifascista, il padre Giuseppe era stato militante del Partito sardo d’azione mentre la madre, Mariuccia Zanfarino, aveva alle spalle una cultura radicale e massonica.
Figura brillante e di grande intelligenza, una volta ottenuta la maturità a soli sedici anni presso il liceo classico Azuni iniziò un’accidentata carriera universitaria che lo vide iscritto inizialmente all’Università di Sassari, quindi alla Cattolica di Milano, poi a Pisa, per fare definitivamente ritorno alla facoltà di Giurisprudenza di Sassari, dove conseguì la laurea con il massimo dei voti. Divenuto assistente volontario alla cattedra di Diritto costituzionale, ottenne la libera docenza nel 1959 e insegnò fino al 1974 quando, con la prima nomina a ministro, si mise in aspettativa dal mondo accademico.
Cossiga si impegnò fin dall’adolescenza nell’associazionismo cattolico, dando vita a circoli giovanili di preghiera e meditazione e aderendo sia all’Azione cattolica che alla Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci). Nel 1945 decise di iscriversi alla Dc, inizialmente vicino alle posizioni di Dossetti e della rivista “Cronache sociali”, e nel marzo 1956 fu protagonista della rivolta dei ‘Giovani turchi’, culminata con l’emarginazione delle vecchie figure notabilari del partito e l’elezione a segretario provinciale.
Eletto per la prima volta deputato nel 1958, Cossiga contribuì dapprima alla fondazione della corrente “dorotea”, per poi divenire nel 1966 sottosegretario alla Difesa nel governo Moro III, il più giovane parlamentare a ricoprire questa carica. In questi anni sovrintese all’organizzazione di Gladio, una rete militare segreta legata alla Nato il cui obiettivo era di avviare forme di lotta armata in caso di invasione da parte di una potenza comunista. Nel corso degli anni Settanta fu ministro della Pubblica amministrazione nel governo Moro IV (1974-1976) e soprattutto dell’Interno (1976-78), incarico quest’ultimo che lo condusse a confrontarsi con il clima di mobilitazione e violenza politica di quegli anni e ad emanare contestati provvedimenti a salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale.
Dall’assassinio di Moro alla Presidenza della Repubblica
Con il rapimento di Aldo Moro, Cossiga fu tra i principali fautori della cosiddetta linea della fermezza, ostile alla trattativa con i terroristi, pur essendo legato a Moro da profondi sentimenti di amicizia. L’uccisione dello statista fu considerata da Cossiga una sconfitta personale e per questo rassegnò le dimissioni da ministro degli Interni ritirandosi temporaneamente dalla vita pubblica.
A seguito delle elezioni politiche del giugno 1979 fu incaricato dal presidente Pertini di formare il nuovo esecutivo, basato sull’alleanza tra democristiani, socialdemocratici e liberali, che si distinse per l’impegno contro il terrorismo, inasprendo le disposizioni sull’ordine pubblico e varando una serie di norme che prevedevano riduzioni di pena per quanti erano disposti a collaborare con la giustizia. Una nuova crisi politica nella primavera del 1980 portò alla formazione di un nuovo governo composto questa volta da democristiani, socialisti e repubblicani, sempre guidato da Cossiga, che ebbe tuttavia vita breve e fu costretto alle dimissioni nel settembre dello stesso anno.
Dopo un nuovo, momentaneo ritiro dalla scena politica nel giugno 1983 Cossiga tornò in Parlamento e fu eletto presidente del Senato. In questo ruolo seppe distinguersi per probità e correttezza istituzionale, motivo per cui due anni più tardi, nel giugno 1985, una larga maggioranza parlamentare lo elesse alla Presidenza della Repubblica. La prima parte del settennato fu caratterizzata da un tradizionale contegno istituzionale e da un’interpretazione quasi notabile del ruolo di presidente, ma con la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’ordine bipolare Cossiga cambiò radicalmente approccio, entrando in polemica con la classe politica e con il Consiglio superiore della Magistratura, che riteneva distorto da eccessive forme di politicizzazione. Cominciava dall’autunno 1990 la stagione delle cosiddette “picconate”, che culminò nel giugno 1991 con un lungo messaggio alle Camere volto a sollevare il problema della cosiddetta “partitocrazia” e delle riforme costituzionali.
Il 28 aprile 1992 decise di dimettersi, due mesi prima rispetto alla conclusione naturale del mandato, poiché credeva che un nuovo presidente, nel pieno dei poteri, potesse meglio gestire l’irrompere della crisi politica e finanziaria che stava affliggendo il paese. Rimase senatore a vita fino alla morte, avvenuta a Roma il 17 agosto 2010.

Stefania Craxi racconta il padre Bettino
Figlio del socialismo italiano ed europeo, Craxi ha legato indissolubilmente la sua immagine agli anni Ottanta e alla modernità di quel decennio. Questo podcast ci racconta, attraverso gli occhi della figlia Stefania, il percorso politico del padre Bettino, tra affetti familiari e militanza nel partito. Ne emerge una ricostruzione forte, appassionata, che affronta tanto i successi, come la conquista della segreteria nazionale del Psi e la prima presidenza del Consiglio socialista, quanto le cadute, con la fine della Prima repubblica e l’esilio
Craxi, Bettino (24 febbraio 1934, Milano – 19 gennaio 2000, Hammamet) all’anagrafe Benedetto, è stato un politico italiano.
Fervente militante e in seguito dirigente del movimento giovanile socialista, dal 1956 entrò a far parte del Comitato provinciale socialista milanese, impegnandosi con un gruppo di fedelissimi a prendere le distanze dall’azione sovietica in Ungheria, seguendo le orme di Pietro Nenni, aderendo alla corrente autonomista, risultando eletto come consigliere milanese nel 1960. Dopo l’esclusione dal Comitato Centrale del Psi per volontà di De Martino, assunse nel 1963 la guida della sezione socialista provinciale di Mialno, arrivando nel 1965 alla Direzione Nazionale del partito. Fu tra i fautori dell’avvicinamento nel 1966 tra socialisti e socialdemocratici.
Divenne parlamentare per la prima volta nel 1968, con oltre 23.000 preferenze, che lo favorirono a essere vicesegretario nazionale nel 1970. Essendo rappresentante dell’Internazionale Socialista, strinse in giovane età rapporti con Brandt, Mitterrand, Soares e Papandreou. Con la caduta del IV Governo Moro e la crescita del Pci di Berlinguer, l’operato di De Martino venne condannato dal voto elettorale, scendendo sotto la soglia del 10%. Il 16 luglio 1976, Craxi fu eletto segretario del Psi, evento che ne consacrava l’ascesa politica e inaugurava un nuovo corso socialista, caratterizzato da critica e confronto aperto con comunisti e democristiani.
Negli anni Ottanta, con la fine della collaborazione con i comunisti, nell’ambito della “solidarietà nazionale”, e la formazione dei governi di pentapartito, Craxi giunse alla Presidenza del Consiglio, mantenendo l’incarico per quattro anni (1983-87).
Con gli anni Novanta, si inaugurò la stagione conclusiva del socialismo craxiano e della Prima Repubblica, travolti dallo scandalo di Tangentopoli, iniziato il 17 febbraio del 1992 con l’arresto di Chiesa, amministratore socialista del Pio Albergo Trivulzio. Seguiranno due anni turbolenti, tra il processo, la condanna e l’esilio volontario ad Hammamet, in Tunisia, dove morirà nelle prime settimane nel gennaio 2000.
Chiara Ingrao racconta il padre Pietro
Dalla Resistenza alla militanza politica, la vicenda di Ingrao si intreccia con quella della più rilevante organizzazione politica di massa dei lavoratori nel secondo Novecento, il Partito comunista italiano. Questo podcast ci racconta, attraverso la voce della figlia Chiara, le storia del padre, tra la passione per la politica e l’amore nella politica, che lo ha legato alla moglie Laura. Un percorso politico e giornalistico, quello di Ingrao, passato dalle battaglie per la giustizia sociale e dalla responsabilità per le sorti del paese.
Ingrao, Pietro (Lenola 30 marzo 1915 – Roma, 27 settembre 2015) – uomo politico italiano.
Ingrao nacque a Lenola, in provincia di Latina, il 30 marzo 1915 da Francesco Renato, impiegato comunale vicino ai socialisti riformisti, e da Celestina Notarianni.
Avvicinatosi nel corso degli studi in Giurisprudenza e Lettere all’impegno antifascista, Ingrao giunse alla militanza comunista nel 1939-40. Entrato in clandestinità dopo l’8 settembre 1943, inaugurò il suo impegnò ne “l’Unità” e conobbe la sorella di Lucio Lombardo Radice, Laura, insegnante e antifascista, che sposò nel giugno 1944. Dal matrimonio nacquero cinque figli: Celeste, Bruna, Chiara, Renata, Guido.
Alla fine della guerra, Ingrao assunse la direzione de “l’Unità”, che tenne dal 1947 al 1957. In occasione delle elezioni dell’aprile 1948, per la I Legislatura, fu eletto deputato; sarà confermato alla Camera fino alla X legislatura (1992). Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, si schierò con la sinistra interna, di cui divenne uno dei massimi esponenti, criticando prima il moderatismo togliattiano e poi la linea maggioritaria del partito, attestata su una posizione di opposizione costruttiva al centro-sinistra.
All’inizio degli anni Settanta, assunse la guida del Centro di studi e iniziative per la riforma dello Stato – Crs (1972-76), in anni turbolenti segnati da mobilitazioni sociali, rivendicazioni sindacali, squilibri del sistema monetario internazionale, crisi petrolifera. Con l’avvio della “solidarietà nazionale”, nel luglio 1976 Ingrao fu chiamato alla presidenza della Camera dei deputati, che mantenne fino al 1979. Con il ritorno del Pci all’opposizione, Ingrao aderì senza riserve alla linea berlingueriana dell’alternativa di sinistra e della questione morale, accompagnando il Pci verso una sempre più marcata presa di distanze dal comunismo sovietico.
Negli anni successivi alla morte di Berlinguer (giugno 1984), Ingrao intese favorire i propositi di rinnovamento promossi dalla segreteria di Achille Occhetto, abbandonando nel 1989 la direzione del Pci. Dissentì tuttavia, all’indomani della caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989), circa l’avvio di una fase costituente volta alla creazione di nuova formazione politica sulle ceneri del Pci. Dopo una prima momentanea adesione Partito democratico della sinistra (Pds), nel 1992, Ingrao rinunciò ai propositi di un’ennesima candidatura e uscì partito.
Flavia Piccoli racconta il padre Flaminio
Uomo di partito, Piccoli ha legato il suo nome alla Democrazia cristiana e alle profonde radici del cattolicesimo tridentino. Questo podcast ci racconta, attraverso il ricordo della figlia Flavia, il percorso politico del padre, segnato dal confronto con le grandi traiettorie disegnate da Fanfani e, soprattutto, da Moro. La rievocazione si sofferma sui momenti più pregnanti della vicenda di Piccoli, per ben due volte alla guida del partito, fino al tragico assassinio di Moro.
Piccoli, Flaminio (Kirchbichl, 28 dicembre 1915 – Roma, 11 aprile 2000) – Uomo politico italiano. Formatosi politicamente nell’associazioni studentesca “Juventus” e nell’Associazione degli Universitari Cattolici Trentini (Auct), fu mandato al fronte nel secondo conflitto mondiale; fuggito dalla prigionia in un convoglio tedesco, partecipò attivamente alla Resistenza e guerra di liberazione, tra le fila della Democrazia cristiana. Affiancò da sempre la carriera politica a quella giornalistica.
Scelto nel 1945 come direttore de “Il Popolo trentino” (ribattezzato “L’Adige” nel 1951), guidò le battaglie del partito nel secondo dopoguerra, distinguendosi nella polemica anticomunista e per l’attenzione alle gerarchie ecclesiastiche.
Nel 1957 l’elezione a segretario provinciale del Dc lo introdusse sulla scena politica nazionale, segnando l’inizio della sua longeva esperienza parlamentare (1958-1994). Già presidente del Consiglio nazionale del partito, si avvicinò alla corrente interna dei “dorotei” e partecipò all’iniziativa politica che segnò la nascita della cosiddetta “seconda generazione”, a scapito di quella “degasperiana”.
Negli anni Settanta, fu tra i più significativi protagonisti del panorama politico: di rilievo, il progetto di legge che diede vita nel 1974 alla legge sul finanziamento pubblico dei partiti e l’incarico come Ministro delle Partecipazioni Statali (1970-72). Durante i giorni del sequestro Moro, fu uno dei cinque uomini della delegazione del partito che ne sostituì la direzione, rimanendo fedele sostenitore della linea della fermezza.
Nella fase del “dopo Moro”, svolse un’intensa attività di politica estera e pose l’accento sull’esigenza di un’unità di tutte le forze politiche sulle questioni internazionali. Venne eletto presidente della Commissione Esteri della Camera, e ricoprì la carica di presidente dell’Internazionale democristiana dal 1986 al 1989.
Le prime inchieste di Tangentopoli segnarono la campagna elettorale per le elezioni politiche del 1992 e la fine dell’esperienza della Dc nel 1994. Escluso dalle candidature del partito, negli ultimi mesi di legislatura confluì nel gruppo del Partito popolare italiano (Ppi). Dedicò gli ultimi anni della sua vita al movimento per la Rinascita della Democrazia cristiana, da lui fondato nel 1997 nel vano tentativo di ricostituire il suo vecchio partito.
Serena Andreotti racconta il padre Giulio
Una vita dedicata alla politica, che attraversa per intero tutta la vicenda della Prima Repubblica. Andreotti, allievo di De Gasperi, è stato uno dei protagonisti indiscussi della Democrazia cristiana e dei tornanti più delicati della storia d’Italia. Questo podcast ci racconta, attraverso il ricordo della figlia Serena, alcuni momenti della storia politica del padre, dagli anni della “solidarietà nazionale” e dell’assassinio di Moro alla tempestosa fine della Prima Repubblica.
Andreotti, Giulio (Roma, 14 gennaio 1919 – Roma, 6 maggio 2013).
Personalità politica, più volte ministro e presidente del Consiglio della Repubblica. Nato da Filippo Alfonso Andreotti, maestro elementare, e Rosa Falasca, fu tra i fondatori della Democrazia Cristiana, affiancando alla capacità di statista a doti di scrittore e di giornalista.
Successivamente agli studi classici, si mostrò attivo nell’associazionismo cattolico aderendo nel 1938 alla Fuci. Negli ambienti universitari cattolici, Andreotti strinse rapporti di stima e collaborazione con Giovanni Battista Montini, che sarebbe divenuto papa con il nome di Paolo VI, Aldo Moro, presidente della Fuci, e molti altri esponenti cattolici della futura classe dirigente politica italiana e democristiana.
L’incontro fondamentale per il suo successivo percorso politico è tuttavia quello con De Gasperi, ancora addetto alla Biblioteca Vaticana, durante gli studi in Giurisprudenza a La Sapienza di Roma. Su sollecitazione dello stesso De Gasperi, di cui divenne stretto e fidato collaboratore, fu designato alla Consulta nazionale nel 1945 e, l’anno successivo, candidato all’Assemblea costituente. Nell’aprile 1948, fu eletto alla Camera dei deputati, mantenendo la carica di sottosegretario alla Presidenza fino al gennaio 1954, anno in cui fu per la prima volta ministro. In tale periodo ricoprì differenti deleghe quali sport, spettacolo e cinema, sostenendo in quest’ambito il c.d. “neorealismo cattolico”.
Nel suo percorso politico fu sette volte presidente del Consiglio e ventotto volte ministro della Repubblica. Nel corso degli anni Settanta, la sua intensa attività di governo fu segnata da momenti di grande rilevanza per la storia del paese, come il governo Andreotti-Malagodi del 1972-73, e soprattutto gli esecutivi di “solidarietà nazionale”, basati sulla collaborazione con il Pci. In questi anni, Andreotti dovette fronteggiare la crisi economica e la stagione stragista e terroristica, particolarmente segnata dal sequestro Moro, cui Andreotti rispose con la linea della fermezza.
Nel corso degli anni Ottanta, dopo un’iniziale fase di marginalizzazione negli equilibri politici, fu ministro degli Esteri negli esecutivi guidati da Craxi, prima di ritornare alla Presidenza del Consiglio con i suoi due ultimi governi, tra il 1989 e il 1992.
Nominato Senatore a vita, nel corso del 1992 fu tra i principali candidati alla Presidenza della Repubblica. Nel 1993 fu coinvolto nelle inchieste della magistratura circa i suoi presunti rapporti con la mafia siciliana; rapporti che sarebbero stati mediati da alcuni esponenti della sua corrente. Si apriva così un lungo processo, sia giudiziario che mediatico, cui Andreotti si sottopose con fermezza e senso delle istituzioni. Un processo lungo, duro e complesso, destinato a chiudersi dieci anni più tardi con una larga assoluzione e la prescrizione dei fatti antecedenti al 1980.
Maria Romana de Gasperi racconta il padre Alcide
Dalla tragedia del fascismo alla rinascita delle libertà. De Gasperi è stata una figura centrale del secondo dopoguerra in Italia, nel passaggio alla democrazia e alla Repubblica. Questo podcast ci racconta, attraverso il racconto della figlia Maria Romana, come attorno alla sua guida i cattolici si sono riuniti nel partito della Democrazia cristiana e il paese abbia superato i difficili anni della ricostruzione, riconquistando lentamente una sua legittimazione in Europa e nel mondo.
De Gasperi (o Degasperi), Alcide. Statista e uomo politico democristiano (Pieve Tesino, Trento, 3 aprile 1881 – Sella di Valsugana, 19 agosto 1954). Fin da giovanissimo, grazie alla guida del sacerdote Vittorio Merler, fu avviato agli studi presso il collegio vescovile di Trento. Il periodo trascorso all’interno di questa istituzione si rivelò decisivo per determinare i tratti peculiari del suo credo politico. Nel 1905 ottenne la laurea in Lettere presso l’Università di Vienna e nel 1906 entrò nel Partito popolare trentino.
Nel 1909, facendosi portatore degli interessi culturali ed economici della sua regione, fu eletto consigliere comunale di Trento e, due anni più tardi, nel 1911, deputato nel collegio di Fiemme. Con l’approssimarsi della fine della Prima guerra mondiale sostenne la volontà delle popolazioni trentine di essere annesse all’Italia e, divenuto cittadino italiano a seguito dell’acquisizione di Trento e Trieste, entrò nel Parlamento nazionale come deputato.
La sua attività politica si intensificò particolarmente negli anni Venti del Novecento quando aderì al nuovo Partito popolare italiano (Ppi), organizzazione di ispirazione cristiana fondata e guidata da don Luigi Sturzo. Dopo la marcia su Roma del 1922 e l’avvento del fascismo al potere, De Gasperi sostituì Sturzo alla guida del partito, dopo che quest’ultimo ebbe deciso per l’esilio volontario.
Tuttavia, con il consolidarsi della dittatura, egli fu costretto a liquidare il Ppi e cessare per un breve periodo la sua attività politica. Nel 1927 fu arrestato con l’accusa di espatrio clandestino e rimase in carcere fino al 1928.
Dopo la scarcerazione, trovandosi in una situazione di precarietà economica e di isolamento morale, condusse un periodo di permanenza a Roma sotto la protezione del Vaticano, dove ebbe l’opportunità di analizzare il contesto storico in cui viveva e riflettere sulla nuova forma che avrebbe assunto la partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana nel secondo dopoguerra. Nel 1943, in un clima di clandestinità, i cattolici italiani si riorganizzarono attorno alla figura di Alcide De Gasperi, fondando il partito della Democrazia cristiana.
Dopo la liberazione di Roma, il leader trentino ottenne la nomina di ministro degli Esteri nel secondo governo Bonomi e poi nel successivo governo Parri. Il 10 dicembre 1945 divenne Presidente del Consiglio e mantenne questa carica ininterrottamente fino al 1953, governando prima insieme ai socialisti e ai comunisti e, dopo il maggio 1947, soltanto con la partecipazione dei partiti di centro. Tra i principali protagonisti della ricostruzione post-bellica italiana, De Gasperi è considerato, insieme al tedesco Konrad Adenauer e al francese Robert Schuman, il padre fondatore dell’Unione Europea.
La convinzione personale di Alcide De Gasperi della necessità di trasferire il solidarismo cattolico sul piano internazionale è rappresentativa della sua idea di Europa. Egli dedicò l’ultima parte della sua vita alla realizzazione di questo progetto, con l’obiettivo di trasmettere alle generazioni future l’importanza di sostenere la pace e la sicurezza tra gli Stati. Nel 1952, ricevette il Premio Carlo Magno per il suo impegno nella diffusione dei valori europei e, nel 1954, fu eletto presidente dell’Assemblea della CECA come riconoscimento per il suo europeismo. Morì a Sella di Valsugana, circondato dai suoi cari, il 19 agosto 1954.
Progetto è stato realizzato anche con il contributo degli Amici della Fondazione De Gasperi e di Fondazione Cariplo, oltre al sostegno di Poste Italiane e in collaborazione con il Corriere della Sera.
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